Il cretino come asset strategico

Come ascoltare gli altri e farseli amici

di Robert James

Recensione di Come ascoltare gli altri e farseli amici, di Robert James, San Lazzaro di Savena : Area51 Publishing, 2015

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Nel film La cena dei cretini i protagonisti sono dei professionisti parigini il cui passatempo è trovare persone i cui hobby sono attività particolari (costruire una tour Eiffel con i fiammiferi ne è un esempio). Presentati a una cena, costoro sono così appassionati da descrivere ciò che fanno nei minimi particolari, in modo iperbolico, monotematico e logorroico. Il gioco ha un vincitore: chi porta il più cretino, ossia chi parla di più e con maggior fervore – con ovvio effetto comico – di un’attività di cui importa poco e nulla a chiunque.
I professionisti di cui sopra si sarebbero molto giovati di un manuale come quello di Robert James, che insegna l’ascolto come strategico per conseguire il proprio successo.
Ora, nessuno nega che l’ascolto interessato di una multinazionale delle lamentele telematiche di un utente insoddisfatto sia strategico e alla fine utile per entrambe le parti. L’epoca dei social network richiede questo.
Quello che suona – si scusi il termine – inumano è l’estensione di una simile pratica fino ai rapporti personali, compresi quelli sentimentali.
Inumano poiché non è importante, alla fine, l’altro e ciò che dice, quanto il fatto che se lo dice a me devo tenerne contabilmente conto per il corretto – da manuale – prosieguo della relazione. Non vi è traccia di vera considerazione dell’altro in quanto persona, ma solo come asset strategico.
Questo è a mio avviso inaccettabile, anche per un’impresa che voglia farsi carico di una minima e calcolata responsabilità sociale.

Dimostrazione di coraggio

Chimica mentale – Il metodo scientifico per creare la realtà con il pensiero

di Charles Haanel

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Per chi ha visto Donnie Darko questo libro ricorda La filosofia del viaggio nel tempo di Roberta Sparrow. Salvo che quest’ultimo ha più fondamenti scientifici.
Chimica mentale inanella una indicibile serie di perle, e la densità di queste è tale da farle manifestare sin dalle prime righe, dove si legge: “La Chimica è la scienza che si occupa della variazioni atomiche e molecolari subite dalle cose in base a varie influenze”, e poco oltre “Qualsiasi numero concepibile può essere formato dalle cifre arabe 1,2,3,4,5,6,7,8,9 e 0”. Va giusto detto come sfuggano all’esimio Autore alcune sfumature della definizione di chimica (si scuserà l’assenza della Maiuscola), per cui per i gas nobili e qualche altro elemento le “variazioni atomiche” hanno peso perlopiù trascurabile, nonché qualche particolare sui sistemi di numerazione aggiunti negli ultimi anni, quale ad esempio quello binario.
Tuttavia, va detto, il libro è consigliatissimo, specie per categorie di lettori tra cui lettori di tarocchi al buio, mesmerizzatori, fuoriusciti da Scientology, Templari e Rosa-Croce in incognito, seguaci di Mons. Milingo, ed altri.
Unica pecca dell’offerta è il prezzo troppo basso. Svilisce l’opera, per la quale cento, anzi, mille euro sarebbero la giusta tariffa, così da consentirne le diffusione solo a chi se la meriti e la desideri ardentemente.

Perché le tesi forti sono rischiose

Perché le nazioni falliscono

di Daron Acemoglu

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Nel solco della migliore saggistica economica di stampo americano, il testo di Acemoglu e Robinson porta avanti un’idea forte: che il primo fattore di sviluppo o regresso delle nazioni sia la loro guida politica. La bipartizione che introducono distingue tra politiche inclusive, che tendono a evitare eccessive concentrazioni della ricchezza e l’eccessivo impoverimento della porzione meno abbiente della popolazione, ed estrattive, che fanno l’esatto opposto, e che portano una nazione alla crisi.
In tema di idee forti, torna alla mente il Jared Diamond di _Armi, acciaio e malattie_ (citato tra le “teorie che non funzionano” da Acemoglu e Robinson), la cui tesi, sostenuta da prove e controprove, voleva che lo sviluppo e la crisi fossero anzitutto risultati di una condizione geografica, zoologica, vegetale, epidemiologica, climatica. In definitiva, se nell’ultimo millennio l’Occidente ha acquisito un predominio economico, ciò è dovuto anzitutto alla sua conformazione geografica, alla presenza di più specie di animali da tiro e cereali, alla diffusione ampia delle malattie e alla presenza del clima temperato.
Entrambi i saggi, letti da soli, quadrano perfettamente. Ma se tutto quanto è citato al loro interno è coerente, non tutto quanto non vi è rappresentato lo è altrettanto.
Prendiamo l’esempio dell’Italia, che in _Perché le nazioni falliscono_ è la penisola culla dell’impero romano e poco più. Il miracolo italiano e la crisi verso la quale il nostro paese è andato incontro si sono svolte sotto un medesimo sistema politico. Solo, l’accumulazione di capitali nelle mani dei “soliti pochi” avveniva negli anni ’60 come oggi, ma con una disponibilità complessiva ben diversa. Per cui si nota di più oggi.
Di più, gli stessi ricchi del Bel Paese lo erano prima e dopo il fascismo.
Altri esempi sono possibili. Lo stato di Israele, caro a Joel Mokyr, mentore di Acemoglu, non deve il proprio sviluppo economico a scelte politiche interne, e nemmeno a una condizione territoriale felice secondo i canoni di Diamond.
Ciò non significa che la tesi forte del saggio non regga; anzi. Ma non vale sempre. Non è una regola buona per tutte le stagioni e per tutti i luoghi. Così come non lo è quella del bellissimo _Armi, acciaio e malattie_. Le tesi forti hanno il privilegio di uscire alla ribalta in modo più evidente, ma non per questo acquistano maggiore validità. E il motivo è semplice.
La storia (e quella economica di conseguenza) non procede linearmente, con tendenze di fondo veramente rintracciabili. E’ caotica nel senso sistemico del termine, quindi non spiegabile con uno o due fattori. L’aveva capito meglio Pareto rispetto a questi signori. Né tantomeno è prevedibile.
In definitiva, una lettura consigliata, ma da valutare con spirito popperiano: la migliore sorte della tesi di Acemoglu e Robinson è di essere criticata, positivamente falsificata e superata da una sintesi più equilibrata. Che certo non ci arriverà dalle università della Ivy League.

Episodi di democrazia extraparlamentare

La signora dei segreti: Il romanzo di Maria Angiolillo. Amore e potere nell’ultimo salotto d’Italia

di Candida Morvillo e Bruno Vespa

Recensione di La signora dei segreti: Il romanzo di Maria Angiolillo. Amore e potere nell’ultimo salotto d’Italia, di Candida Morvillo e Bruno Vespa, Milano : Rizzoli, 2015

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Si dice sempre che quando si scrive di storia ci si deve astenere dal giudizio. Questo poiché gli stessi avvenimenti narrati dovrebbero aiutare la valutazione morale.Questa operazione riesce benissimo a Vespa e alla Morvillo, che elencano, enumerano, associano, quasi compiaciuti, senza il minimo tentennamento, il minimo dubbio. Non li sfiora il pensiero che il trasferimento di parte delle trattative politiche (per quelle economiche il problema a rigore non si pone) dalle sedi naturali a casa di una gentil signora sia sintomo di poca trasparenza nei confronti di coloro su cui quelle decisioni ricadranno. Almeno Vespa nel proprio salotto mette le telecamere. In definitiva, il testo ha un’utilità: mostra un’ottima applicazione pratica del manuale Cencelli, che pare non passare mai di moda.

Dove anche i geek sfogliano le pagine

Tutta colpa di un libro

di Shelly King

Recensione di Tutta colpa di un libro di Shelly King, Milano : Garzanti, 2015
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Quello di Shelly King è il diario di una giovane donna che legge libri cartacei nella Silicon Valley, dove l’idea comune vorrebbe che la cellulosa sia stata ormai bandita per ragioni che vanno dalla comodità del formato digitale al rispetto per gli alberi.
Tutta colpa di un libro è originale nella forma senza stravolgere il genere del diario personale, e descrive due mondi – quello delle case di software e quello della letteratura, meglio se amorosa – che si toccano senza stridere, pur con qualche licenza scenica (lo hanno notato in molti, il quadernetto del proprietario della libreria al posto dell’elenco su pc, tanto impossibile in una libreria californiana da rischiare di essere vero). Fanno sorridere i dialoghi che alternano riferimenti a LinkedIn ad altri su L’amante di Lady Chatterley. E la trama è originale, con uno sviluppo interessante nella prima metà del libro e un finale inatteso.
Piccola nota sulla copertina: del tutto fourviante. In essa forse il solo gatto, comunque troppo magro, è un degno riferimento alla storia.

Per chi annusa i libri

La memoria vegetale e altri scritti

di Umberto Eco

Recensione di La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia di Umberto Eco, Milano : Bompiani, 2011
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La memoria vegetale e altri scritti è una raccolta di saggi sulla bibliofilia tratti da conferenze, prefazioni ad altri saggi, articoli e da un testo (Riflessioni sulla bibliofilia) pubblicato in precedenza per l’editore Rovello. Quest’ultimo varrebbe da solo la spesa: si tratta di un piccolo compendio (una trentina di pagine) che definisce anzitutto la bibliofilia, passando poi in rassegna la bibliomania, il rubar libri, la bibliocastia, per arrivare a definire che cosa sia la biblioteca per un bibliofilo.
Altre tre piccole perle sono: il capitolo su Athanasius Kircher, analizzato nella sua fortuna attraverso i secoli, sino ai prezzi attuali delle sue opere; “Lo strano caso della Hanau 1609”, analisi dal punto di vista filologico e del bibliofilo della discussa edizione dell’Ampiteatrum Sapientiae Aeternae, opera dell’alchimista tedesco Heinrich Khunrath; e “Shakespeare era per caso Shakespeare”, divertissement sulla “Bacon-Shakespeare Controversy”.
Purtroppo ho smarrito il volume qualche mese dopo l’acquisto, ma mi sono rifatto con l’edizione del 2007 data alle stampe dall’editore Rovello che ho menzionato sopra. Un piccolo sfizio in soli duemila esemplari, su carta usomano avoriata Arcoprint e carattere Bembo monotype, che apprezzo ancora di più oggi, dopo che Rovello ha chiuso i battenti in modo silenzioso e triste.

Il dubbio

Io uccido

di Giorgio Faletti

Recensione di Io uccido di Giorgio Faletti, Milano : Baldini&Castoldi, 2002
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Qualche moto di incredulità accompagnò nel 2002 la comparsa del primo romanzo di Giorgio Faletti, che dopo il “Drive-In” si era già preso la soddisfazione di cantare a Sanremo e comporre canzoni per Mina, Milva e Fiordaliso.
Io uccido è originale a tratti e al tempo stesso già visto, spesso intenso e talvolta poco lucido, ma non perde mai la presa, con quel registro linguistico da sigaretta a un angolo della bocca che sa tanto di Sam Spade. Tanto, forse un po’ troppo.
Negli anni si è scoperto che i Led Zeppelin hanno completamente copiato Stairway to Heaven. Almeno lì vi era l’interpretazione.
Qui sono troppi i casi nei quali sembra di essere di fronte a una traduzione buona ma non ottima dall’inglese americano. Troppe le volte (e lo saranno ancora di più nel caso di Fuori da un evidente destino, per il quale addirittura il titolo fece alzare il sopracciglio dei critici più attenti) nelle quali il ricorso a riferimenti culturali americani sembra fuori luogo o mal reso in italiano, pur stante la presenza nella storia di un uomo dell’FBI a Montecarlo.
Pur con quel dubbi, Io uccido resta una lettura leggera, che senza troppi sofismi filologici resta un ottimo alleato di ombrellone.

L’imbarazzo della scelta

Il ritorno del numero sette: Lorien Legacies [vol. 5]

di Pittacus Lore

Recensione di Il ritorno del numero sette: Lorien Legacies [vol. 5] di Pittacus Lore, Milano : Editrice Nord, 2015
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E’ difficile scegliere da dove partire per giudicare le pagine di James Frey e Jobie Hughes. D’accordo, la trama può pure avere un che di interessante, ma occorre per forza qualcosa che giustifichi il successo (americano) di una saga che altrimenti rimane al livello della letteratura vampiresca delle Buffy e dei Vampire Diaries.
Non se ne può più di alieni che vengono sulla Terra per usarla come campo di battaglia (quanti hanno già utilizzato l’espediente?). Non se ne può più di alieni che anche prima di esserci arrivati, sulla Terra, hanno nomi egizi (perché non russi o bantu?). E non se ne può più di personaggi che fanno cose e vedono gente ma non hanno il minimo spessore, la minima caratterizzazione, la minima definizione di passioni e sentimenti che non siano “io amo”, “io odio”. Mai un dubbio, un tentennamento, una crescita. Al confronto di queste dramatis personae i Puffi sono rappresentati in modo più sfaccettato.
Leggo che questa dovrebbe essere letteratura per ragazzi. Possiamo trattarli meglio.

Serendipity

Città aperta

di Teju Cole

Recensione di Città aperta di Teju Cole, Torino : Einaudi, 2013
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L’opera di Teju Cole è la narrazione in prima persona delle sensazioni vissute dal protagonista Julius, nelle sue perergrinazioni. Tanto basterebbe a sintetizzare Città aperta. Apparentemente le vicende vissute da Julius, uno specializzando in psichiatria all’ultimo anno, non hanno gerarchia, non hanno livelli di importanza. Così come non hanno importanza le mete ultime delle sue camminate newyorchesi. Su tutto vincono l’estrema attenzione, la capacità di cogliere il particolare, la predilezione per il dettaglio minimo, che ricordano quasi quelle di Funes, il memorioso delle Finzioni di Borges. L’attenzione di Julius è però figlia di quella dei popoli che ancora sanno ascoltare, vedere e annusare prima di parlare con un’opinione formata. Il riferimento non diventa quindi Borges, quanto la storia delle principesse di Serendip, che camminano senza traguardi incontrando sempre cose belle e inaspettate.
Julius, infine, una propria gerarchia ce l’ha, e la scopre pian piano durante la narrazione. Un ordine di valori che prima vuole rifiutare, forse per volontà anticonformista, per poi aderirvi, in modo quasi sanguigno. Una chiamata dal profondo, si direbbe, che lo porta a schierarsi quando prima si era tenuto in disparte. Perché New York, il Belgio o Lagos non sono poi così distanti per chi voglia trovarne i punti di contatto. Con attenzione, per l’appunto.

Un’occasione persa

Didone, per esempio

di Mariangela Galatea Vaglio

Recensione di Didone, per esempio di Mariangela Galatea Vaglio, Roma : Ultra, 2014
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Va bene che l’Antichità classica sia considerata noiosa, e che debba essere rivista in chiave più sbarazzina. Va bene che le storie di un tempo siano belle quanto (anzi, sono madri) di quelle di oggi, e possano essere rese con una vivacità che ci è più consona. Va bene, ancora, prendersi una piccola rivincita morale sui prof del liceo che tanto ci hanno fatto odiare quelle opere.
Ma se da un lato Mariangela Vaglio riesce bene a togliere molta della polvere accumulata su quelle lontane figure, eccede, e di molto, nell’uso di un registro linguistico “giovane”. Sta bene un po’ di brio, ma i “c****” e i “vaf*******” sparsi con abbondanza nelle pagine di Didone, per esempio non vanno proprio. Non per un vago perbenismo, ma semplicemente perché sono stucchevoli, rubano inutilmente la scena ai personaggi che si sta cercando di recuperare, e alla fine riducono di molto il risultato finale.
Poi, non avessimo esempi a conferma del contrario: Luciano De Crescenzo ha già mostrato come simili operazioni possano essere compiute con rigore, allegria e leggerezza senza attingere al turpiloquio. Come dicono i Francesi, “le cul, ça marche toujours”, ossia una parolaccia, una chiappa o un rutto funzionano sempre per far divertire, ma forse in questo caso non era necessario.