l’iPad, il riscaldamento globale e l’entropia

Prima o poi qualcuno farà il calcolo (non ne ho voglia) dell’effetto generato dalle maggiori temperature sviluppate dall’iPad 3 sul global warming. Ma prima ancora, non avevo mai percepito un tale interesse nei confronti del calore generato da un processore. Il sito olandese Tweakers parla di un aumento da 28,3 (temperatura di lavoro dell’iPad 2) a 33,6 gradi (Celsius, ça va sans dire) della nuova versione del dispositivo prodotto dalla Apple.
Colpito da tale sostanza numerica, svolgo alcune riflessioni:
– l’iPad potrebbe utilmente svolgere funzioni di riscaldamento casalingo (cosa che dà il là a una possibile lista delle “cose che non puoi fare con un quotidiano ma con l”iPad sì”, dopo le “cose che non puoi fare con l’iPad ma con un quotidiano sì“);
– mettere ordine nelle cose che ci circondano, sia che ciò avvenga ritirando abiti in un armadio, dividendo pietruzze per colore, usando un calcolatore per scrivere un blog o un tablet per organizzare dei segnali radio in notizie quotidiane, significa combattere (localmente) l’entropia. Poiché però questa simpatica grandezza deve sempre aumentare allorché spostiamo il nostro punto di osservazione da locale a globale, ecco che avere una maggiore potenza di calcolo, capace quindi di fare più ordine attorno a noi, significa che da qualche parte ci sarà maggiore disordine. E, a prescindere dal disordine che può essersi creato durante la costruzione di un iPad (sul quale non mi dilungo molto, ma che è commisurato alla quantità di CO2 prodotta), maniera preferenziale per esprimersi da parte del disordine è il calore. Quindi, in assenza di salti tecnologici particolari (come potrà essere, ad esempio, il calcolatore quantistico), a maggior potenza di calcolo corrisponde maggior calore emesso dai circuiti per effetto Joule;
– secondo una sensazione che dovrei verificare con un termometro (ma non credo che infilerò mai un termometro a mercurio in qualche orifizio del mio notebook, vedasi una presa RJ-45), la temperatura di 33,6 gradi è comunque inferiore a quella generata da un laptop di uso comune;
– risultato di tutte queste elucubrazioni, con buona probabilità, è solo un piccolo contributo all’entropia del nostro pianeta; un sano ozio sarebbe forse stato più proficuo.

mele, finestre e nuvole

E’ di questi giorni l’annuncio del lancio, da parte di Apple Computers, del nuovo sistema, cosiddetto cloud, per mezzo del quale gli utenti di iMac, iBook, iPad, e più in generale di tutta la galassia di dispositivi marchiati con la mela in grado di connettersi alla Rete, potranno riversare contenuti su una memoria remota contenuti che sino a oggi detenevano in uno o più dei propri devices.
La Apple non è la prima azienda a proporre una simile soluzione, se è vero che associata alle caselle e-mail di Google esiste da circa 4 anni la possibilità di usare Gmail alla stregua di un disco fisso (la datazione varia secondo le funzionalità incluse nel pacchetto; in ogni caso Google è arrivata a proporre soluzioni di questo tipo già diversi anni fa). Flickr da anni consente la memorizzazione di immagini personali caricate via Web. E la lista non è finita, a testimonianza di una tendenza che vuole in misura crescente l’uso della memorizzazione remota.
Chiamando in causa l’adagio vichiano, parrebbe che ancora una volta i corsi e ricorsi storici facciano capolino, poiché l’era informatica precedente la personalizzazione dei computer vedeva la presenza di grandi mainframe, ai quali si chiedevano elaborazioni complesse che solo questi erano in grado di svolgere.
L’attuale crescente centralizzazione delle memorie avviene però per altri motivi, come la necessità di sincronizzazione dei file presenti su più dispositivi (soprattutto per i privati), o la remotizzazione dei backup (soprattutto per le aziende) a fini di sicurezza. Il tutto basato sull’accresciuta (e ancora crescente) velocità di trasferimento dei dati a distanza.
Il dubbio, però è semplice quanto legittimo: se, per fare un esempio, le nostre ricerche su Google determinano poi i contenuti dei messaggi pubblicitaari che ci appaiono durante le nostre navigazioni successive, affidarsi come privati (e, peggio ancora, come aziende) a soluzioni di stoccaggio remoto dei file, non potrà rivelarsi mai pericoloso o quanto meno poco provvido?