06 – aqua

Se i Greci ebbero grande attenzione per le questioni teoriche, mancando completamente nella loro applicazione pratica, per motivi contingenti (l’abbondanza di manodopera servile) che si stratificarono in visioni sociali (la bassissima considerazione di coloro che si occupavano di arti pratiche, in favore di coloro che si dedicavano alla pura speculazione), vale il contrario per i Romani, che raggiunsero livelli non toccati in precedenza non solo nelle realizzazioni pratiche, ma anche nella gestione di queste, specie quando si trattava di reti infrastrutturali territoriali. Le formulazioni teoriche di epoca romana, poi, furono in realtà sistematizzazioni, sempre con un occhio di riguardo per la gestione sistematica della tecnologia.
I settori in cui maggiormente lasciarono traccia i Romani sono quelli intrinsecamente legati alla presenza di grandi città (di cui Roma è ovviamente l’esempio di gran lunga più significativo) e alla necessità di gestire centralmente un grande impero come quello romano, che alla propria massima espansione raggiunse dimensioni continentali.
Si parla così principalmente di gestione delle acque, di implementazione e gestione di un sistema viario, e di realizzazione e gestione di edifici, in molti casi di dimensioni notevoli.

Sesto Giulio Frontino nacque attorno al 30 d.C.; fu Governatore della Britannia (74-78) e curatore delle acque di Roma (97-104) si occupò anche di agrimensura (in un trattato andato perduto) e di tecnica militare e strategia (Strategmata in 4 libri).
Il suo trattato De acquae ductu urbis Romae è opera di fondamentale importanza per la comprensione del sistema tecnico romano, non solo di quello legato alla gestione delle acque.
Gli acquedotti romani funzionavano per gravità. A monte si aveva il manufatto di presa (incile); scendendo, il lungo canale in muratura (rivus) trasportava le acque anche a più di 100 km di distanza; le gallerie, i ponti-canale per attraversare le valli con muri e archi (substructiones, arcuaziones), se del caso le condotte in piombo saldato, sino alle vasche di carico alimentanti le reti idriche cittadine (castella aquae), erano i manufatti complementari. Esistevano anche le opere per il corretto funzionamento come le piscinae limariae (sedimentatori) e i fori di aerazione (lumina).
La trattazione di Frontino chiarisce che i Romani, sino al 312 a.C. non adottarono reti idriche. Le fonti erano ritenute sacre e apportatrici di salute ai corpi ammalati; le principali erano la fonte delle Camene, quella di Apollo e quella della ninfa Giuturna.
Il primo acquedotto fu quello dell’Aqua Appia (312); seguirono quelli dell’Aniene Vecchio (272), dell’Aqua Marcia (144), dell’Aqua Tepula (125), Iulia (33), Virgo (19), Alsietina (2 a.C.), Claudia (52 d.C.), Anio Novus.
La rete non interrata degli acquedotti romani si estendeva per 50 chilometri; essi fornivano a Roma 12.454 quinarie (circa 705.000 mc d’acqua nelle 24 ore).
Secondo i calcoli di Frontino, il 17% dell’acqua serviva a scopi “industriali”, il 39% ad usi privati e il rimanente 44% riforniva 19 caserme, 95 edifici pubblici, 39 terme e 591 fontane.
Tra le tre destinazioni delle risorse idriche era prioritaria quella per uso pubblico e in origine solo l’acqua in eccesso (aqua caduca) era destinata ai bagni pubblici, mediante una concessione che comportava il pagamento di un canone.
Quanto alle concessioni ai privati, dovettero essere all’inizio gratuite, date o in cambio di servizi resi allo stato o come beneficia principis.