i santuari della tecnologia (ovvero, cose che potresti fare in un museo dell’automobile)

Nulla da dire. Bella ristrutturazione. La sede storica del Museo Nazionale dell’Automobile “Biscaretti di Ruffia” (è “Ruffìa”, con l’accento sulla “i”, per fare i precisini) ha beneficiato di un restyling che ha visto l’assegnazione nel 2005 a un gruppo di aziende e il termine dei lavori nel 2011.
Oggi la hall principale del Museo è ornata da pannellature verticali metalliche, la cui traforatura potrebbe ricordare quella dei pedali delle auto da corsa. Gli ambienti sono stati pensati da un designer la cui opera è così descritta sul sito (http://www.museoauto.it/website/it/museo/storia-del-museo):

L’esperienza acquisita da Francois Confino in altri progetti simili (a Torino ha già allestito il Museo del Cinema), ha aiutato ad immaginare un concetto inedito che posizionerà il Museo di Torino all’avanguardia nel campo dell’arte di esporre le auto. Il filo conduttore sarà “l’auto osservata come creazione del genio e dell’immaginazione umana” e ciò, innanzitutto, al fine di far conoscere e di valorizzare l’immenso bacino di talenti, l’estro creativo, l’artigianalità e le capacità imprenditoriali esistenti a Torino ed in Piemonte.

Corfino ha compiuto un lavoro esemplare al Museo del Cinema, dove si entra negli ambienti che ricostruiscono le scene di film famosi. Si ha un piacere infantile quando ci si può sedere sui cessi che ricreano la scena della cena de Il fantasma della libertà di Luis Buñuel. Si possono vivere gli ambienti, si toccano le cose, si girano le manovelle, si è pienamente dentro il museo.
Niente di tutto ciò al Museo (Nazionale) dell’Automobile. Pur nei nuovi ambienti, pur disposte in una sequenza cronologica, pur vivacizzate da modellini in movimento, le (gli) automobili sono solo in mostra. Non le si tocca, e anche se non le separa dal visitatore il cordone rosso dei vecchi allestimenti, non si è invogliati a toccarle. E’ come essere in un autosalone, dove però il futuro acquirente non può sedersi al volante e mimare la sterzata, aprire la porta per poterla chiudere e apprezzare il rumore delle guarnizioni che aderiscono, sollevare il portellone posteriore e valutare la capienza del bagagliaio.
Clay McShane, professore di storia della tecnologia alla Northeastern University di Boston, una ventina di anni fa pubblicò alcune considerazini sul museo torinese (Exhibit Review of the Museo Dell’Automobile Carlo Biscaretti Di Ruffia, “Radical History Review”, 51, Fall, 1991, pp. 107-113) sostenendo che fosse paragonabile a una cattedrale, e di come lì fosse impossibile procedere a una critica (anche in senso neutro) dell’automobile, così come non si critica la religione in chiesa (l’articolo non lo trovo più, questo è quanto mi ricordo dalla sua lettura e da una conversazione con il professor McShane).
Almeno, nelle teorie di santi nelle basiliche bizantine, i canonizzati hanno peso e dimensioni in ragione della loro fama all’interno della chiesa; al Museo dell’Automobile non vi è nemmeno questo. Della Lancia Lambda, apparsa nel 1923 come la prima automobile nella quale il telaio a longheroni era stato rimpiazzato da una struttura in lamiera imbutita, per mezzo della quale la scocca della vettura diventava portante, nessuna segnalazione se non nome, produttore e periodo di produzione. Nessuno schema a supporto, nessun disegno progettuale, nessun video, nessuna animazione. Una vettura come le altre a fianco, tutto qui.
E ancora, siamo distanti da approcci come quello del Technomuseum di Mannheim, dove addirittura l’autovettura è esposta nel suo stato di incidentata – orrore! -, o di altri musei, che prevedono percorsi didattici interattivi. Il paradigma di riferimento è invece quello del Museo Egizio, dove un reperto della III dinastia non si tocca così come non si tocca uno del periodo copto, pur essendo i due separati da tremila anni. La Itala, rialzata dal pavimento, non è accessibile come non lo è l’esemplare della Tesla Motors, pur collocato a pavimento. Come se delle automobili contasse solo la forma esteriore.