l’effetto del lunedì – 03 – Leidenfrost

L’effetto Leidenfrost, come molti effetti, prende il nome dal proprio scopritore, il fisico tedesco che per primo lo studiò. Johann Gottlob Leidenfrost (Ortenberg 1715 – Duisburg 1794), attivo presso l’università di Diusburg, della quale fu anche rettore, svolse l’attività di fisico a fianco di quella principale di medico, e si interessò anche di chimica.
L’effetto consiste nella non-vaporizzazione istantanea di una goccia di un liquido lasciata cadere su di una piastra, a temperatura di molto superiore a quella di ebollizione del liquido.
Nel caso dell’acqua, portando la piastra intorno ai fatidici 100° C del punto di ebollizione, la goccia evapora nel giro di un secondo, producendo il tipico rumore. Se però la temperatura della piastra si aggira attorno ai 200° C la goccia produce in corrispondenza del punto di contatto con la piastra un sottile velo di vapore, che la mantiene integra anche per diverse decine di secondi.
Si dice “punto di Leidenfrost” la temperatura, caratteristica di ogni liquido, a partire dalla quale il fenomeno ha luogo.
La spiegazione dell’effetto sta nel basso coefficiente di conducibilità termica del vapore, che ritarda la propagazione del calore dalla piastra alla restante parte della goccia. In più il vapore, a mo’ di un cuscinetto, riduce in modo sensibile l’attrito tra goccia e piastra, permettendone il movimento quasi libero che spesso si può notare.
Si ritiene che l’effetto Leidenfrost contribuisca almeno parzialmente alla buona riuscita delle pratiche di pirobazia, le camminate sui carboni ardenti; o addirittura, all’immersione di una mano nel piombo fuso.

Il video seguente mostra questa coraggiosa pratica; sono anche visibili delle goccioline che resistono sul piombo fuso (almeno 327° C) proprio a causa dell’effetto. WARNING: KIDS DON’T DO IT AT HOME!!!

Wolfram|Alpha

Wolfram|Alpha è un “motore computazionale di conoscenza” che interpreta le parole chiave inserite dall’utente e propone direttamente una risposta invece di offrire una lista di collegamenti ad altri siti web. L’autore di questo strumento, attivato il 18 maggio 2009, è lo scienziato e matematico britannico Stephen Wolfram, conosciuto per aver sviluppato il software “Mathematica”.

È un software molto sofisticato, che elabora dei precisi input sia in linguaggio matematico che in linguaggio naturale, fornendo una risposta dettagliata alla domanda. Il modo in cui si pone la domanda può dunque influenzare l’efficacia della risposta. Attualmente è incentrato soprattutto sulle conoscenze tecniche e solo in lingua inglese.

Inserendo nel campo della ricerca una forma funzionale analitica, ad esempio, il sito restituisce il grafico della funzione, e il suo studio. Scrivendo invece il nome scientifico di un essere vivente (ad esempio panthera leo per il leone), si ottiene l’albero della sua classificazione. Ancora, la semplice scrittura di una formula chimica consente la visualizzazione delle caratteristiche più importanti del composto. Gli esempi sono ancora molti, e spaziano dalla geografia (inserendo un toponimo si ottengono i dati essenziali a riguardo), alle informazioni di borsa (inserendo il nome o il codice di un’azione), dalla storia (inserendo una data si ottengono i principali avvenimenti in quel giorno e in quel mese in altri anni, ad esempio) agli Easter’s Eggs (“uova di Pasqua”), ossia i “regali” inattesi che il motore fa inserendo particolari richieste (vedi esempio).

Si pensi a un liceale in preda al panico di fronte a uno studio di funzione o a un universitario che deve rispondere in merito a un composto ignoto: come cambierebbero le loro prospettive disponendo in aula di un simile sistema?

la lista del giovedì – 03 – dieci modi per rovinare un buon caffè

L’arte di rovinare un buon caffè di Roselina Salemi apparso su “La stampa” di lunedì 13 settembre 2010 riportava 10 fattori che possono impedire la realizzazione di un buon caffè da bar. Li si riprende qui, con qualche commento.

“1. Troppe tazzine – Se si dispongono più di due file sopra la macchina, quelle dietro rimangono fresche”
Alternativamente, un barista può mettersele in tasca, disporle in una fila ordinata sul bancone, darne due in mano ad ogni avventore; o può spostare quelle che prima erano dietro, prendendo il posto di quelle davanti quando queste sono utilizzate.

“2. Tazzine cilindriche – Questa foggia non aiuta la formazione della crema”
Su questo punto occorrerà tornare: ci sarà pure qualche università dove è stata svolta una tesi con titolo vicino a “Dinamiche non lineari nello sviluppo della schiuma in tazzine da caffè tronco-coniche in presenza di flussi con numeri di Reynolds inferiori a 1000”.

“3. Caffè macinato nel dosatore – Invecchia molto più velocemente del caffè in grani”
Verissimo; il principio della macinazione si basa sul fatto che l’aumento dell’area superficiale permette uno scambio maggiore con l’aria o l’acqua. Partendo dai grani, inoltre, si è anche certi che ciò si mette nei filtri è solo caffè.

“4. Fondi nel portafiltro – Il nuovo caffè finirà per sapere di bruciato o di fumo”
Lo vedete il barista che a ogni caffè lava il portafiltro, lo asciuga e lo ripone nella sua sede?

“5. Portafiltro con bordi sporchi – Non si aggancia alla macchina e il caffè sa di gomma bruciata”
Vedi punto 4.

“6. Dose troppo scarsa – 10 grammi invece di 14 danno un caffè con meno corpo e meno aromi”
A tutte le macchine da caffè professionali sono abbinati dei dosatori con levetta a molla, che permettono un’erogazione costante. Probabilmente è possibile regolare la quantità rilasciata a ogni colpo. Difficile che un barista sia così corto di vedute da rovinare i propri caffè per 4 grammi.

“7. Miscela scadente – Si riconosce subito dalle note di paglia e di arachide”
Qui se il braccino corto la fa da padrone, c’è poco da fare. Si veda la conclusione del punto 6.

“8. Polvere poco pressata – L’accua corre troppo velocemente nel caffè”
E’ il punto 6 visto da un’altra angolazione: se c’è poca polvere, sarà meno pressata.

“9. Niente fretta – Se l’acqua attraversa la polvere per meno di 25 secondi si ha un caffè «sottotostato»”
Esistono in commercio cronometri di ogni tipo; munitevi di uno per verificare che questa condizione sia rispettata. 25 secondi? In 25 secondi si riempirebbe una tazza da cioccolato…

10. Eccesso di acqua – La misura corretta è di circa 25 millilitri, 35 sono eccessivi. Bocciato il caffè lungo”
Ma pure il caffè al volo, alla caffeina, americano, americano macchiato, basso, bollente, bollente macchiato, brasiliana, canario, con cacao, con nuvoletta, corretto schiuma, corto, doppio, doppio macchiato caldo/freddo, doppio ristrettissimo – con latte freddo a parte, doppio ristretto – con latte freddo a parte, doppio ristretto/lungo, espresso con panna, espresso doppio, espresso granita, espresso molto lungo, espresso romano, espresso solo, francese, goccia di caffè con crema di latte, goccia di caffè con latte senza schiuma, in tazza bollente, in tazza fredda, in tazza grande con panna, in vetro, jamaica, latte macchiato, leggero, lungo, lungo in tazza grande – macchiato caldo/freddo, lungo macchiato caldo/freddo, lungo molto macchiato, macchiato caldissimo, macchiato con cacao, macchiato lungo con acqua calda a parte, marocchino, normale con acqua calda/fredda, normale con un cubetto di ghiaccio, normale macchiato caldo, normale macchiato caldo con un po’ di latte freddo, normale macchiato freddo, normale schiumato, ristretto, ristrettissimo, ristrettissimo con poco latte, ristrettissimo con tanto latte, ristretto, ristretto in tazza bollente/fredda, ristretto in tazza grande, ristretto in tazza grande macchiato caldo/freddo, ristretto in vetro, ristretto in vetro macchiato caldo, ristretto macchiato caldo senza schiuma, ristretto macchiato caldo/freddo, ristretto macchiato schiumato, romano, solo, spremuta di arabica, spremuta di brasil, spremuta di chicchi, spumato, super, turco.

E comunque, non è consigliabile esagerare…

matite e penne spaziali

Fino a qualche tempo fa circolava la storiella secondo la quale gli Americani, soliti approcciare i problemi tecnici spaziali con budget milionari, avessero impiegato grandi risorse finanziarie per la realizzazione di una “penna spaziale” che ovviasse ai problemi presentati dalle ordinarie penne a sfera, incapaci di scrivere bene in assenza di gravità. I Russi, sempre secondo la storiella, avrebbero semplicemente utilizzato una matita.
Sin dai primi lanci di capsule spaziali, tuttavia, le matite sono stati gli strumenti di scrittura utilizzati sia dagli Americani sia dai Russi; le mine, però, a volte si rompevano e diventavano rischiose galleggiando nell’atmosfera senza gravità della capsula medesima. Potevano così ledere un occhio o entrare nel naso, o ancora causare cortocircuiti nei circuiti elettrici. In più, sia la mina sia il legno della matita potevano velocemente bruciare nell’atmosfera di ossigeno puro. Tuttavia le matite furono utilizzate su voli spaziali delle serie Gemini e Mercury e su tutti i voli spaziali russi prima del 1968.
Il produttore Paul Fisher comprese che gli astronauti avevano bisogno di uno strumento di scrittura più sicuro e affidabile, così nel luglio 1965 sviluppò per conto proprio la penna a sfera pressurizzata, nella quale l’inchiostro contenuto in una cartuccia sigillata e pressurizzata. Fisher sottopose i primi prototipi a Robert Gilruth, allora direttore del centro spaziale di Houston. Le penne erano completamente di metallo tranne l’inchiostro, che aveva un punto di infiammabilità superiore ai 200° C.
Dopo l’incendio sull’Apollo 1, a causa del quale perirono tre astronauti, la NASA richiese uno strumento di scrittura che non rischiasse di prendere fuoco in un’atmosfera dove il tenore di ossigeno era del 100%, e che svolgesse bene il proprio compito nel vuoto, senza gravità. Poi, che lo facesse in un intervallo di temperature dai -120 ai 150° C. Le “penne spaziali” campione furono provate a fondo dalla NASA dal settembre 1965. Superarono tutti i test e nel dicembre 1967 le prime 400 “penne spaziali” furono vendute da Paul Fisher alla NASA, al prezzo di 2,95 dollari l’una. Sono state usate da allora su tutti i voli spaziali, sia russi sia americani.

NOTA: perché da sempre i cosmonauti sono i Russi della Soyuz e gli astronauti gli Americani dell’Apollo?

l’effetto del lunedì – 03 – Doppler

E’ piuttosto facile riconoscere se un’ambulanza sta venendo nella nostra direzione, perché il suono della sua sirena è più “alto”; analogamente, quando l’ambulanza si allontana, il suono assume una frequenza minore.
Quando Christian Andreas Doppler, matematico e fisico austriaco, scoprì l’effetto nel 1845, non c’erano ambulanze a motore, ma un treno con una piccola orchestra a bordo fu più che sufficiente come esperimento decisivo: Doppler si mise lungo i binari e verificò la distorsione nel suono prodotto.
La variazione della frequenza si spiega in questo modo: quando la sorgente del suono si avvicina all’ascoltatore, le onde emesse sono più ravvicinate per via dello spostamento della sorgente. Alle orecchie dell’ascoltatore si produce così un suono di maggiore frequenza.
Un’esperienza che può chiarire intuitivamente l’effetto è una nuotata in mare: allontanandoci da riva, incontreremo le onde più ravvicinate l’una all’altra, mentre se vi torniamo la loro frequenza ci apparirà minore.

A soli tre anni di distanza, e soprattutto in maniera Hippolyte Fizeau scoprì indipendentemente lo stesso effetto nelle onde elettromagnetiche nel 1848 (in Francia, l’effetto è a volte chiamato “effetto Doppler-Fizeau”).
La comprensione di questo aspetto dell’effetto, in particolare con riferimento alle onde luminose, ha rivestito un ruolo fondamentale per la comprensione di fenomeni in astronomia.
Lo spettro elettromagnetico (quindi sia all’interno sia fuori lo spettro del visibile) irradiato dai corpi celesti non è continuo, ma presenta dei picchi a certe frequenze, legate agli stati energetici degli elettroni degli elementi chimici che compongono i corpi. Nel momento in cui queste sorgenti si muovono, questi picchi si trovano spostati rispetto alla posizione nella qualce ci si aspetterebbe trovarli se la medesima sorgente fosse ferma.
Dalla misurazione della differenza di posizione si può risalire alla velocità dello spostamento, nello stesso modo in cui, conoscendo la nota prodotta dalla sirena di un’ambulanza ferma, ascoltando la nota prodotta da quella in movimento si potrebbe dedurre la velocità alla quale il veicolo si sta spostando.
Nell’ambito della luce visibile, invece, essendo i colori agli estremi dello spettro il rosso (frequenza minore) e il violetto (frequenza maggiore), l’effetto che normalmente si verifica osservando oggetti celesti è il cosiddetto red shift, “spostamento verso il rosso”, poiché la frequenza misurabile è minore di quella teorica. Da qui si deduce che le stelle si stanno allontanando dal nostro punto di osservazione (vige in questo campo la legge di Hubble).
L’effetto Doppler elettromagnetico è una delle basi della teoria dell’universo in espansione, ma molto più modestamente ha permesso ad esempio di individuare stelle binarie dove in apparenza se ne osservava una con delle anomalie, o misurare la velocità di rotazione di corpi celesti, galassie e ammassi interstellari.

strane navi

Negli anni ’20 del xx secolo un ingegnere tedesco, Anton Flettner, originario dell’Assia, modificò la “Buckau”, una grossa barca a vela, sostituendo i suoi tre alberi con due cilindri rotanti alti circa 16 metri: si tratta della prima applicazione conosciuta dell’effetto Magnus ai fini della navigazione marittima. La nave, che disponeva anche di un motore Diesel per la propulsione in assenza assoluta di vento, era addirittura in grado di muoversi contro vento, proprio per la capacità dei cilindri di sfruttare l’effetto Magnus. Lo schema dà un’idea sintetica di come i cilindri debbano essere fatti girare.
Nel 1926 la nave compì un viaggio nell’Atlantico, dimostrando l’efficacia di questa soluzione; tuttavia, il progetto fu accantonato per via dei rendimenti complessivi, che si dimostrarono inferiori a quelli di analoghe navi a motore.
Oggi, anche a fronte dei sempre più cari combustibili fossili, si ripercorrono strade alternative: la compagnia di navigazione Beluga Shipping, di base a Brema in Germania, dispone già della “Beluga Skysails”, nave portacontainer di 132 metri, che sfrutta la trazione di una vela simile a quella dei parapendio. La Enercon, invece, leader nel settore della produzione di turbine, nel 2008 ha invece varato la “E-Ship”, che manco a dirlo sfrutta l’effetto Magnus.
La nave dispone di controlli automatici che la direzionano nella maniera ottimale rispetto alla provenienza del vento e ovviamente rispetto alla destinazione. Lo scafo della nave, studiato con la collaborazione delle facoltà di ingegneria navale di Amburgo e Kiel, contribuisce alla riduzione dei consumi, che possono attestarsi sino al 40% rispetto a quelli di una nave con propulsione tradizionale.
In presenza di un vento forza 7 è possibile spegnere i motori diesel-elettrici che imprimono la rotazione ai cilindri e sfruttare la spinta “naturale” dei rotori, che permettono di raggiungere una velocità non distante da quella massima. Il principio è sempre lo stesso: l’aria che turbina intorno ad un oggetto in rotazione che presenta al fllusso la propria sezione circolare lo spinge da un lato, quello dove registra la minore resistenza a causa della rotazione.
Le colonne cilindriche fungono quindi da vele, e in aggiunta usano il vento in maniera molto più efficiente, permettendo la navigazione con un angolo di incidenza rispetto al vento sino a 20 gradi, contro i 45 gradi minimi di un’imbarcazione a vela.
Una notevole, seppur non commerciale, applicazione dell’effetto Magnus è stata quella della nave “Alcyone”, realizzata dall’oceanografo francese Jacques Cousteau nel 1985. La Cousteau Society è attualmente alla ricerca di fondi per la costruzione della “Calypso II”, nave oceanografica e scientifica che nelle intenzioni dovrebbe essere dotata di un’enorme turbosail in grado di sospingerla per gli oceani.

la lista del giovedì – 02 – i grattacieli più alti del mondo

Solo quattordicesimo. Superato in altezza da sette cinesi, otto se si considera cinese quello di Taipei. Il più vecchio tra i primi trenta, essendo del ’31. Si tratta dell’Empire State Building, per lungo tempo il più alto edificio del mondo. Tirato su in un annetto, surclassò di una sessantina di metri (l’Empire è alto 381 metri) il Chrysler Building (319 metri), altro grattacielo newyorchese, edificato appena l’anno prima, attualmente trentunesimo nella graduatoria dei più alti edifici a oggi completati nel mondo.
Oggi la classifica vede fresco fresco al primo posto un mastodonte che sorpassa il secondo giusto dell’altezza del Chrysler Building (!!!). Si tratta del Burj Khalifa, colosso di 828 metri, o che dir si voglia 2717 piedi, mentre il secondo più alto grattacielo è proprio il grattacielo di Taipei, che con volontà quasi nazionalistica prende il nome di Taipei 101, che con i suoi 508 metri nel 2004 era stato il primo grattacielo – e non semplice struttura, si badi – a superare il mezzo chilometro dalla base alla punta.
Sulla classificazione dei più alti manufatti costruiti dall’uomo vi sono numerose clausole, condizioni, eccezioni, che fanno variare la “top ten” o la “top 100”; l’edificazione del Burj Khalifa, tuttavia, ha messo a tacere ogni possibile disputa.
A oggi una classifica abbastanza condivisa dei 15 più alti edifici della terra vede queste posizioni:

15. Central Plaza, Hong Kong – 374 metri, 78 piani, in calcestruzzo, costruito nel 1992;

14. Empire State Building, New York (USA) – 381 metri, 102 piani, costruito nel 1931;

13. Shun Hing Square, Shenzhen (Cina) – 384 metri, 69 piani, costruito nel 1996;

12. CITIC Plaza, Guangzhou (Cina) – 390 metri, 80 piani, costruito nel 1996;

11. Two International Finance Center, Hong Kong (Cina) – 412 metri, 88 piani, costruito nel 2003;

10. Jin Mao Building, Shanghai (Cina) – 421 metri, 88 piani, costruito nel 1999;

9. Trump International Hotel & Tower, Chicago (USA) – 423 metri, 98 piani, costruito nel 2009;

8. Willis Tower, Chicago (USA) – 442 metri, 108 piani, costruito nel 1974;

7. Nanjing Greenland Financial Center, Nanjing (Cina) – 450 metri, 66 piani, costruito nel 2010;

5. Petronas Towers (1 e 2), Kuala Lumpur (Malesia) – 452 metri, 88 piani, costruite nel 1998;

4. International Commerce Centre, Hong Kong (Cina) – 484 metri, 108 piani, costruito nel 2010;

3. Shanghai World Financial Center, Shanghai (Cina) – 492 metri, 101 piani, costruito nel 2008;

2. Taipei 101, Taipei (Taiwan) – 508 metri, 101 piani, costruito nel 2004;

1. Burj Khalifa, Dubai (EAU) – 828 metri, 163 piani, costruito nel 2010.

La linea evolutiva degli edifici “fuori taglia” ha come punti fondamentali prima le strutture in acciaio, poi un ritorno del calcestruzzo alla fine degli anni ’90 del xx secolo e infine l’uso di materiali compositi nelle più recenti realizzazioni. Le presenze tra i primi 15 sono:
– 2 in acciaio: la Willis Tower e l’Empire State Building;
– 3 in calcestruzzo: la Trump International Hotel & Tower, la CITIC Plaza e la Central Plaza;
– 9 in materiali compositi (tutti quelli tra il 2° e il 7° posto);
– uno solo, peraltro significativo, in modalità mista: il Burj Khalifa, per parte in calcestruzzo e per parte in acciaio.

Infine, un confronto con la classifica dei più alti edifici nel 2000 mostra l’incredibile accelerazione, avvenuta soprattutto in estremo Oriente, in questo campo. La recente crisi economica, però, ha potentemente sferzato il settore, se è vero che il Burj Khalifa prende il nome dal presidente degli Emirati Arabi Uniti Khalifa bin Zayed Al Nahayan (che per sopramisura è pure emiro di Abu Dhabi).

l’alluminio, un bravo trasformista – 2

(segue)

Sino all’inizio del xx secolo la struttura della materia non fu compresa in modo completo. O meglio, senza sapere che cosa fosse realmente un elemento dal punto di vista fisico, Dmitri Mendeleev tracciò correttamente la dipendenza periodica delle proprietà degli elementi dal loro peso atomico sin dalla fine degli anni ’60 del xix secolo.
Nei periodi precedenti, non era agevole né concettualmente semplice dividere i composti dagli elementi puri. Ciò valeva anche per l’alluminio, del quale già nel 1782 il chimico francese Antoine Lavoisier ne postulò l’esistenza a partire dall’analisi di un suo ossido come l’allume. Un quarto di secolo dopo, nel 1808, Sir Humprey Davy, celebre chimico inglese, gli diede pure il nome che arriva sino a oggi: aluminum, erroneamente interpretato da alcuni come derivante da a-lumen,“senza luce”, e in realtà originato da alum, ossia “sale amaro”.
Sempre Davy, a un solo anno di distanza dal “battesimo” dell’alluminio, lo ricavò in forma pura, agendo con un arco elettrico su di un bagno di ferro fuso e allumina: pur con un’energia elettrica ancora tutta da scoprire (la pila di Volta non aveva ancora compiuto 10 anni), si inizia a tracciare la strada che porterà allo sfruttamento diffuso di questo metallo.
Un altro nume tutelare della scienza elettromagnetica, il danese Hans Christian Oersted, ottenne quantità più rilevanti di questo metallo nel 1825. E si deve a Frederick Wöhler, che passerà alla storia per le sue trattazioni degli sforzi a fatica dei metalli, la produzione di piccole sfere di alluminio, pur non più grandi della capocchia di uno spillo. Il contributo di Wöhler arrivò al determinare il peso specifico dell’alluminio.

Che il fattore dimensionale fosse critico non solo per l’effettiva possibilità di usare il “nuovo” metallo, ma pure per suscitare interesse nei suoi confronti, è dimostrato dai risultati ottenuti dal francese Henry-Etienne Sainte-Claire Deville. Costui, un anno solo dopo Oersted, riuscì a ottenere quantità isolate di alluminio puro della grandezza di palle da biliardo, attirando l’attenzione addirittura di Napoleone III, che lo supportò nelle sue ricerche. Tale era il fascino eserciatato dall’alluminio che dopo l’Exposition universelle di Parigi del 1855, occasione nella quale Sainte-Claire Devill potè mostrare le prime barre di alluminio prodotte sino a quel momento, proprio queste barre furono esposte accanto ai gioielli della Corona.
La scala di attività era ancora troppo modesta, e aumentò in modo notevolissimo quando l’americano Charles Martin Hall, dall’alto dei suoi 23 anni, ideò un metodo elettrolitico per la produzion di alluminio puro. Correva l’anno 1886, e il panorama dello sfruttamento dell’energia elettrica era cambiato: il trasformatore, ad esempio, consentiva il trasporto a distanza dell’energia elettrica, mentre le potenze installate aumentavano in modo sensibile.
Hall fu in grado di scindere gli ossidi dell’alluminio facendo passare una intensa corrente elettrica in una soluzione di criolite e allumina. In Francia, dal canto suo, Paul L. T. Herault ideò un metodo pressoché identico, pur non avvertendo la portata commerciale dell’invenzione. Alla prova dei fatti, il sistema Hall-Herault, che prende il nome da entrambi i suoi ideatori, si mostrò produttivo, economico e di facile gestione ed applicazione industriale.
Nel 1888 il celebre chimico tedesco Karl Joseph Bayer brevettò un nuovo sistema per ottenere l’allumina; il metodo Bayer è punto di partenza del ciclo industriale del prodotto. Che i metodi Hall-Herault e Bayer fossero un’ottima soluzione lo si evince dalla tabella qui vicino, che riporta le quantità di alluminio prodotte dalla fine del xix secolo sino alla fine del xx.

Nel momento in cui si rese facilmente disponibile, la leggerezza unita alla resistenza dell’alluminio lo eressero al metallo non ferroso più largamente impiegato.
A titolo di paragone, il dato del 1999 permette di compiere un paragone tra i 24 milioni di tonnellate di alluminio prodotte e i 14 di rame, i 6 di piombo e le “sole” 200 mila di stagno.
I settori di applicazione dell’alluminio sono moltissimi ed estesissimi: basti dire che l’aeronautica dopo la Seconda guerra mondiale deve buona parte del suo repentino sviluppo all’uso dell’alluminio per la costruzione di ali e fusioliere; anche molti altri mezzi di trasporto utilizzano massiciamente questo metallo. Altro ambito è quello degli imballaggi: le lattine delle bibite (e non solo) sono costituite di alluminio; così lo sono molti serramenti e così parti importanti dei nostri elettrodomestici e di altri utensili presenti nelle cucine; negli ultimi tempi l’alluminio ha addirittura sostituito il rame nella realizzazione di linee elettriche, per via del buon rapporto conduttività/peso+costo.

l’effetto del lunedì – 01 – Magnus (continuazione del martedì)

(segue)

L’articolo The spinning ball spiral, come si accennava, risponde anche agli appassionati di altri sport, presentando una sintetica risposta alla domanda del generico sportivo: “Vedrò mai l’effetto Magnus nel mio sport?”. Ciò, tuttavia, non prima di aver dato qualche riferimento in merito ai precedenti studi compiuti in materia.

Tra i precursori di Magnus vi sono nomi eccelsi: sarebbe stato lo stesso sir Isaac Newton a descrivere per primo questo effetto nel 1672, osservando, manco a dirlo, alcuni giocatori di tennis. Una settantina di anni dopo l’ingegnere del genio inglese Benjamin Robins avrebbe ricondotto le deviazioni di alcune traiettorie di proiettili all’effetto Magnus. A 180 anni dall’intuizione di Newton, nel 1852, sarebbe stato un chimico tedesco, Heinrich Gustav Magnus (1802-1870), a fornire dati sperimentali sul fenomeno tali da farlo associare al proprio nome. Clanet e colleghi non dimenticano di citare un altro nume tutelare degli studi di fluidodinamica e aeronautica: Gustave Eiffel. Non si ricorda di certo Gustave Eiffel per i propri studi in questo campo, eppure questa disciplina fu – ed è – fondamentale per la progettazione (iniziata nel 1863) di una enorme macchina qual è la torre che da lui prende il nome, sottoposta all’azione di forti venti, tanto più sferzanti quanto più ci si sposta verso la sommità della costruzione.

Ma veniamo al punto: verso il termine dell’articolo si riporta una tabella che dà un’idea dei numeri in gioco non solo nel caso del calcio, ma anche nel caso di alcuni altri sport. La seconda colonna della tabella mostra la velocità iniziale, ossia quella al momento del colpo, espressa in metri al secondo (10 metri al secondo equivalgono a 36 km/h); la terza riporta la lunghezza in metri del campo di gioco o, come nel caso del baseball, la distanza tra lanciatore e battitore; la quarta colonna è una misura legata alla densità della palla, ed esprime grosso modo che distanza occorre per vedere il pieno attuarsi dell’effetto Magnus, con il verificarsi di effetti imprevedibili; infine, la quinta colonna esprime, sulla base di ulteriori condizioni specifiche per ciascuno sport, a che distanza si può vedere una prima curvatura rispetto alla traiettoria rettilinea che la palla o il pallone dovrebbe seguire.

La tabella mostra dei casi estremi: quello del tennis tavolo, nel quale la particolare conformazione della pallina permette di tracciare curve che si manifestano a un solo metro di distanza dal punto di impatto, e quelli della pallacanestro e della pallamano, per i quali l’effetto Magnus, vuoi per la modesta velocità in gioco (in particolare per la pallacanestro), vuoi per il peso e la densità del pallone, non si verifica per alcuna distanza.
Per gli altri sport la curvatura della traiettoria inizia a manifestarsi a una distanza di 5-7 metri dal punto dell’impatto: i conti tornano rispetto al tiro di Roberto Carlos.
Similmente, nel caso della pallavolo è esperienza comune vedere battute al salto che si abbassano rispetto alla traiettoria prevedibile già in prossimità della rete. L’effetto Magnus deriva dalla rotazione (con buona pace di Caressa) impressa dalla mano dell’atleta, che “lavora” la palla dal basso verso l’alto e poi avanti, imprimendo uno spin tale per cui, chi guarda un battitore dalla sua destra vedrà la palla ruotare in senso orario.
Rispetto alla tabella compilata dagli autori dell’articolo, si può aggiungere che la velocità iniziale della palla può essere superiore ai 20 metri al secondo ipotizzati nella seconda colonna, ed essendo l’effetto Magnus beneficamente influenzato dalla velocità iniziale, si ha che esso si può verificare con maggiore facilità.

Quando manca l’effetto Magnus, o addirittura la rotazione è contraria a quella normalmente impressa, la traiettoria…

In qualche caso l’effetto Magnus non ha modo di verificarsi, vista la distanza percorsa dal pallone abbondantemente al di sotto dei 5 metri (si può forse parlare di effetto Marshall?):

Per chi vuole saperne di più, nell’articolo Christophe Clanet dice che tutte le comunicazioni (si suppone anche richieste di informazioni e chiarimenti) dovrebbero essere indirizzate a lui: clanet@ladhyx.polytechnique.fr… altrimenti ci sono i commenti.