07 – ora et labora

Sino quasi alla fine del Medioevo, gli strumenti storicamente utilizzati dall’uomo per la misurazione del tempo hanno principalmente basato il proprio funzionamento sul consumo (candele marcatempo, bastoncini combustibili) o sul flusso controllato (orologio ad acqua, clessidra a sabbia), provvedendo a un conteggio più che a una misura. La candela marcatempo poteva essere graduata, e così pure il bastoncino combustibile; lo scorrere della sabbia nella clessidra aveva carattere di ripetibilità, rendendo per l’appunto possibile il conteggio; in nessun caso, però, si aveva un’unità di misura univoca, un riferimento esterno (come una frazione del giorno), che rendesse possibile una quantificazione univoca (misura) del tempo trascorso. In qualche modo il meccanismo o l’oggetto conteneva al proprio interno la misura, che in questo modo non era operativamente trasferibile.
Il passaggio agli orologi meccanici segnò, in particolare con l’adozione dei sistemi di scappamento, il passaggio a un’unità campione che poteva essere replicata, così come era confrontabile l’andamento di diversi strumenti di misura. Parallelamente, ciò concise anche con il passaggio, parafrasando lo studio omonimo di Alexandre Koyré, “dal mondo del pressappoco all’universo della precisione”, ossia da una modalità pre-scientifica a una propriamente scientifica.
Non saranno tuttavia gli scienziati a servirsi per primi di questo passaggio: le prime comunità ad avvertire un certo bisogno di precisione saranno quelle degli ordini monastici. In un mondo agricolo nel quale i ritmi del lavoro e la scansione della giornata avvenivano grazie all’alternarsi del giorno e della notte, oltre che dall’avvicendarsi delle stagioni, i monaci abbisognavano di sapere l’ora per ottemperare correttamente alla propria regola (il sistema di norme dettato dal fondatore dell’ordine), che prevedeva in genere un momento di preghiera notturna, detto compìeta.
La scansione della cosiddetta “liturgia delle ore” è la seguente:
lodi all’alba;
prima alle 6;
terza alle 9;
sesta alle 12;
nona alle 15;
vespri al tramonto;
compìeta a una certa ora della notte.
Da questa rigorosa suddivisione, nella quale i soli vespri potevano essere celebrati sulla base di un riferimento naturale si può immaginare la necessità di precisione nella misurazione dell’ora.

Saranno poi gli astronomi a spingere per un ulteriore perfezionamento dei meccanismi, poiché la tabulazione delle posizioni degli astri aveva pieno senso se inserita in un riferimento cronologico coerente.

Sino all’epoca rinascimentale (basti pensare che fu ripreso nel Re militari di Roberto Valturio, nel 1472) l’orologio ad acqua di Vitruvio fu uno dei meccanismi di misurazione del tempo più precisi. Esso è costituito da un’asta dotata di un galleggiante in un serbatoio contenente acqua in continuo elevamento. All’estremità dell’asta è collegata una ruota dentata: quest’ultima viene messa in rotazione attraverso l’avanzamento verticale del profilo dentato di cui l’asta è dotata; la lancetta, accoppiata con la ruota, scandisce il tempo sul quadrante in funzione dell’innalzamento del livello dell’acqua.

Pur rigettando l’ipotesi ormai desueta di un Medioevo europeo come età dei secoli bui, almeno nell’alto Medioevo la diffusione delle macchine per la misurazione del tempo aveva come direzione principalmente quella che va da Est verso Ovest. Si trattava comunque di manufatti ancora imprecisi, realizzati soprattutto per un fine estetico. Un esempio rilevante ne è lo storico dono di Haroun al Rashid, nell’807 d.C. che omaggiò Carlo Magno con un orologio ad acqua, basato sul funzionamento coordinato di palline di bronzo che indicavano l’ora cadendo in un bacino di ottone, ad eccezione del mezzogiorno, quando dodici cavalieri escono da rispettive finestrelle, che poi si chiudono dietro di loro. Questo congegno non era affidabile ed era approssimativo. La sua ragion d’essere non era tanto tecnica, quanto scenica.
Non ci si discosta ancora molto dalla posizione dei Greci, che vedevano la tecnica come un sovvertimento dell’ordine naturale, e quindi, come tale, da aborrire. La tecnica, tutt’al più, poteva essere fonte di divertimento, come tale disgiunto da applicazioni reali.

06 – modelli di uomo e architettonici

Marco Vitruvio Pollione (Marcus Vitruvius Pollio), (75 a.C. circa – 25 a.C.) fu architetto, ingegnere e scrittore latino.
Già ufficiale sovrintendente alle macchine da guerra sotto Giulio Cesare ed architetto-ingegnere sotto Augusto, è l’unico scrittore latino di architettura di cui si possiedano le opere. Vera autorità nel campo, è spesso citato dagli autori successivi, come Frontino.
La sua opera fondamentale è il De architectura in 10 libri, dedicato ad Augusto e scritto tra il 27 e il 23 a.C. In quegli anni Augusto progettava un rinnovamento generale dell’edilizia pubblica. Il trattato, riscoperto in epoca rinascimentale (1414) da Poggio Bracciolini, è stato il fondamento dell’architettura occidentale fino alla fine del XIX secolo.
Il De architectura presenta la seguente scansione:
• Libro I: formazione dell’architetto e scelta del luogo
• Libro II: tecniche edificatorie, origine e sviluppo
• Libro III e IV: edifici sacri
• Libro V: edifici pubblici
• Libro VI e VII: edifici privati (luogo, tipologia, intonaci, pavimenti)
• Libro VIII: Idraulica
• Libro IX: orologi solari, digressione astronomica e astrologica
• Libro X: Meccanica (costruzione di gru, macchine idrauliche e belliche)

La scansione dà un’idea precisa della tecnologia romana.
Si tratta in realtà di un vero trattato di ingegneria, e sarà opera di riferimento per molti secoli.
Vitruvio ci informa di una pratica amministrativa elaborata da lui stesso, per la quale i privati dovevano pagare una tassa basata su un contratto tra lo Stato e l’utente, al fine di limitare gli allacciamenti abusivi e le concessioni individuali e gratuite. Jerôme Carcopino nella sua opera La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero dichiara che, nonostante le grosse canalizzazioni di piombo portassero l’acqua degli acquedotti nelle abitazioni private, solo i pianterreni delle insulæ dove abitavano i più facoltosi vi avevano accesso. Gli abitanti dei piani alti erano costretti a procurarsi l’acqua alla più vicina fontana e questo rendeva difficile la cura della pulizia. Giovenale nelle sue Satire cita spesso i portatori d’acqua (aquarii), necessari alla vita collettiva d’ogni stabile. In effetti nessuna costruzione ci ha ancora rivelato le colonne montanti che avrebbero permesso di portare l’acqua ai diversi piani.
Dal punto di vista architettonico, i Romani ebbero il merito di utilizzare due nuovi elementi costitutivi: l’arco e la volta. Grazie anche alla selezione dei materiali e alla qualità risultante, essi raggiunsero picchi di assoluta rilevanza, come nel caso del Pantheon. Costruito dall’imperatore Adriano nel II secolo d.C., rimase insuperato per oltre 1500 anni per le dimensioni della propria cupola, che raggiunge i 43 metri di diametro.
L’arco fu abbondantemente usato anche nella costruzione dei manufatti murari degli acquedotti, e la sua realizzazione prevedeva l’uso delle centine in legno, poiché durante le fasi della costruzione non autososteneva il proprio peso parziale.
La gerarchia organizzativa nell’ambito dei lavori pubblici era strettamente legata a quella religiosa: basti pensare a due figure fondamentali, come il rex auger e il pontifex maximus, che svolgevano funzioni sia religiose sia politiche. Ad esempio, il pontifex sovrintendeva alla costruzione delle maggiori opere civili (quali i ponti, appunto), ma si curava anche della divinazione ritenuta necessaria perché i migliori auspici vigessero al momento dell’inaugurazione dell’opera. Per la parola “pontefice” oggi rimane, come noto, solo il significato legato alla funzione religiosa e divinatoria.