19 – il tecnico a scuola

L’instaurarsi del paradigma della “tecnica del tecnico” fu condizione necessaria alla nascita e alla diffusione delle scuole tecniche, che avvenne a partire dalla fine del xviii secolo. Per i paradigmi precedenti la teoria non rivestiva un ruolo fondamentale: la técnica del azar e la técnica de l’artesan erano per definizione legati a schemi operativi nei quali la pratica era assolutamente preponderante. La prima è la cosiddetta “tecnica del caso”, che non possiede alcun fondamento teorico e che si sviluppa per tentativi ripetuti; la seconda si basa sul “saper fare” dell’artigiano, che segue la produzione in maniera verticale dalla materia prima fino al prodotto finito. Quest’ultima può inoltre presupporre una continuazione del mestiere per via genealogica.
La técnica del técnico consiste, invece, nel “saper far fare” e per questo motivo si adatta bene al periodo della Rivoluzione Industriale. Nasceva un nuovo approccio di tipo scientifico rispetto alla produzione, con una susseguente suddivisione delle attività produttive, e la necessità che il tecnico svolga una funzione di coordinazione senza dover realizzare in prima persona il prodotto stesso.
Inoltre, la produzione industriale, nel giro di pochi anni, subì un processo di standardizzazione che implicò l’adeguamento a precise specifiche tecniche nella realizzazione del prodotto, la cui produzione era scomposta in un insieme di passaggi più semplici, secondo un rigoroso schema concettuale. Non fu più necessario che il singolo operatore conoscesse la tecnica necessaria alla realizzazione di tutto il manufatto, come faceva un artigiano; per l’operaio fu sufficiente conoscere come svolgere la singola operazione, nella quale diventava esperto per effetto delle numerose ripetizioni dell’operazione medesima. In questo senso, il primo a raggiungere un tale obiettivo era stato Brunelleschi, che nella costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore aveva compiuto un trasferimento di conoscenze in maniera del tutto comprensibile per le proprie maestranze, che non sapevano leggere.
Fu tuttavia il libro a diventare così il mezzo fondamentale di divulgazione della conoscenza durante questo periodo, almeno per quanto riguarda il trasferimento di conoscenze all’interno delle scuole tecniche.
Queste nacquero grazie alla presenza di una sufficiente massa critica e quindi dopo l’avvento della tecnica del tecnico. Anche in questo caso fu l’Inghilterra a precedere gli altri paesi industrializzati con il suo il suo stretto approccio tra teoria e pratica che consentiva la formazione di una classe di tecnici adeguatamente preparati alla realtà industriale. In Francia, così come in Italia, l’aspetto teorico era stato ritenuto a lungo preponderante rispetto a quello pratico. Questo fatto viene sottolineato da Denis Diderot in suo saggio su “Le Arti” del 1752 e ribadito ancora nell’Encyclopédie (1751-1777) a cui Diderot lavorò insieme a D’Alembert; l’opera andava idealmente oltre i teatri di macchine, presentando descrizioni articolate nella parte testuale e rappresentazioni di scene operative, assonometrie, sezioni e spaccati nella parte cosiddetta delle Planches.
L’Inghilterra rappresentava un caso particolare nel panorama internazionale, perché non vi nacquero delle vere e proprie scuole tecniche ma delle associazioni, come ad esempio la “Lunar Society”. Questa associazione fu frequentata da importanti tecnici e scienziati dell’epoca, come ad esempio James Watt ed il suo sodale Matthew Boulton, o come Erasmus Darwin (nonno del più celebre Charles) e Josiah Wedgewood (il nome fondamentale nell’industrializzazione dell’industria delle ceramiche), che discutevano e scambiavano le proprie esperienze sulle nuove tecniche applicate.
In altri paesi come la Francia, invece, fu lo Stato stesso a farsi carico dell’istituzione di scuole tecniche e scientifiche: i principali settori di applicazione furono quello delle infrastrutture (specialmente in campo militare con la fondazione dell’Ecole du Génie Militaire a Mézières, nel 1748), dell’ingegneria navale (l’Ecole Royale des Ingenieurs Constructeurs de Vaisseux, che divenne poi l’Ecole du Génie Maritime, fu fondata nel 1765), e quello minerario (risale al 1748 al 1783 l’istituzione dell’Ecole des Mines).
Durante questo periodo assume grande importanza la figura del geniere, ossia colui che si occupava delle infrastrutture e del loro contenuto tecnologico: in marina si occupava dell’adeguamento dei sistemi di bordo della nave, mentre in ambito terrestre era fondamentale per la costituzione delle infrastrutture in corrispondenza della zona di avanzamento di un esercito, oltre a curarsi della logistica e degli approvvigionamenti e per garantire un’avanzata sicura.

16 – non solo amici dei minatori

Col crescere della complessità cresceva anche il problema del controllo dell’ottimizzazione dei tempi di ogni singolo ciclo. Basti pensare che in una macchina come quella di Newcomen in ogni ciclo dovevano essere aperte e poi richiuse decine di valvole in tempi ben stabiliti con un ordine ferreo e inviolabile. Se tali rigide regole di precedenza e sincronismo fossero state trasgredite non solo la macchina non avrebbe funzionato ma si avrebbe rischiato la compromissione dell’intera struttura per non dire l’esplosione dell’intero stabilimento. Ecco perche si cercò sempre più di automatizzare il sistema di apertura e chiusura delle valvole con gli automatismi propri del ciclo della macchina.
Questo tipo di ottimizzazione consenti poi la vendibilità del “prodotto-macchina” come standard e riproducibile praticamente in serie, aprendo cosi un nuovo tipo di mercato.
Sistemi di apertura e chiusura delle valvole per l’immissione e lo scarico del vapore (ed acqua) erano automatizzati attraverso il moto dell’asta della pompa d’iniezione sincronizzata con il moto del bilanciere. La possibilità di tale automatismo, non esistente in origine, fu consigliata da un giovane operaio addetto alle aperture e chiusure delle valvole, Humphrey Potter: questi collegò con delle corde le due valvole all’asta in moto con il bilanciere e se ne andò a giocare con gli amici, avendo reso automatiche tali operazioni.
La tenuta dello stantuffo era realizzata mediante rivestimento del medesimo con del cuoio reso a tenuta d’aria mediante il rigonfiamento provocato da acqua situata nella parte superiore dello stantuffo, ottenendo una buona soluzione ma ancora lontana da una buona tenuta. Il tutto era di notevoli dimensioni: l’altezza del solo cilindro poteva arrivare quasi ai 4 metri. Il bilanciere realizzava 12 oscillazioni al minuto in ciascuna delle quali sollevava 45 litri d’acqua da 46 metri di profondità mediante l’uso di una serie di pompe. La sua potenza si poteva stimare intorno ai 5 cavalli vapore. Tale macchina ebbe un gran successo ed in sessanta anni se ne fabbricarono oltre 120 esemplari.
Culmine tecnico per la costruzione di macchine a vapore fu raggiunto da James Watt che con la sua macchia riuscì a ottimizzate al meglio i principi della termodinamica in una struttura dal alto rendimento e dalla gestione semi-automatica.
I principi di funzionamento della macchina possono essere così riassunti: Il vapore prodotto dalla caldaia entra nel cilindro e solleva il pistone (in tale fase la valvola B è aperta e la A è chiusa). Appena il pistone è arrivato alla sommità del cilindro si chiude B e si apre A: una pompa aspira il vapore dal cilindro. Il cilindro scende in basso ad opera della pressione atmosferica (il cilindro mosso dal solo vapore sarà in un modello di macchina successivo). Il vapore aspirato va nel condensatore per ritornare allo stato liquido. Si riapre la valvola B e si richiude la A per iniziare un nuovo ciclo. Nel frattempo l’asta del pistone compie lavoro attraverso l’oscillazione del bilanciere che aziona la pompa della miniera. Il bilanciere, come lavoro secondario, aziona anche la pompa che aspira il vapore dal cilindro.
Watt non si limitò a sfruttare al meglio la potenza di un ciclo, ma riuscì a raddoppiare tale potenza accoppiando due cicli; regolò altresì il funzionamento della macchina in maniera automatica con una valvola tarata su valori soglia: il governor.
Nel 1782 Watt realizzò la macchina a doppio effetto, che in pratica raddoppiava la potenza della macchina semplice a parità di cilindrata. Si trattava di immettere il vapore alternativamente sulle due facce dello stantuffo. In tal modo si abbandonava l’intervento diretto della pressione per far scendere lo stantuffo medesimo e si apriva alla possibilità di macchine con cilindro non più necessariamente verticale. I problemi con il doppio effetto erano legati al trasferimento del moto al bilanciere. La catena non era più utilizzabile; ora serviva un meccanismo rigido. Watt risolse brillantemente anche questo problema con il sistema detto parallelogrammo articolato o a tre leve. Infine Watt realizzò una valvola regolatrice centrifuga (aggiunta nel 1788), accoppiata con un meccanismo che regolava l’immissione del vapore (ancora il governor) per mantenere la macchina a velocità costante.
Il regolatore di Watt faceva accelerare la macchina se rallentava per il troppo carico o la faceva rallentare dopo un’accelerazione dovuta a diminuzione di carico. Se la velocità della macchina aumentava le due sfere si divaricavano e, per mezzo di leverismi, facevano chiudere parzialmente la valvola a farfalla. La quantità di vapore che giungeva nel cilindro diminuiva e la macchina rallentava. Se la macchina ritardava, si verificava esattamente il contrario.
Il governor forniva anche un’idea qualitativa del lavoro compiuto dalla macchina, ed anche visivamente rendeva conto della velocità di operazione della medesima: più si sollevavano le palline, nel moto rotatorio che competeva loro, maggiore era la velocità della macchina.
Il governor è un esempio di feedback, in una macchina che si autoregola e autogestisce: i giri motore a valle influenzano la chiusura della farfalla; in altre parole, l’uscita della macchina influenza l’ingresso.