L’effetto Coanda

Tutti almeno una volta hanno verificato che, mettendo un dito sotto il rubinetto aperto, il flusso dell’acqua tende a seguire il contorno della superficie del dito, piegandosi in maniera quasi inattesa.
Ciò è dovuto all’attrito tra l’acqua e la pelle, per cui si ha un rallentamento delle molecole di fluido a contatto; tuttavia, per via della coesione tra le molecole d’acqua più esterne e quelle rallentate, si ha una deviazione di tutto il flusso, che rimane aderente alla superficie solida.
Henri Coandă (1886-1972), pioniere dell’aeronautica rumeno, fu il primo a realizzare un aeroplano funzionante con propulsione a reazione. Nel 1910 sperimentò suo malgrado l’effetto che da lui avrebbe preso il nome: le fiamme uscite dal propulsore avvolsero la fusoliera del velivolo, proprio a causa dell’attrito e conseguente deviazione del flusso dei gas di scarico con la superficie. perse il controllo del mezzo, che andò distrutto, lasciando però illeso lo scienziato rumeno.
Risale al 1939 il prototipo della Vought Aircraft Company, che realizzò un velivolo la cui forma è quella “classica” dei dischi volanti, dal nome forse non eccelso di “Flying Flapjack”. Il mezzo si librava in qualche modo nell’aria, soprattutto grazie alla sua forma. Molti avvistamenti nel corso di tutto il secondo conflitto mondiale di oggetti non identificati possono essere legati alle missioni di questi strani velivoli. Tra gli ultimi avvistamenti registrati vi è quello di Kenneth Arnold, di Boise, Ohio, che nel 1947 denunciò l’avvistamento di un “disco volante” dal proprio velivolo da turismo. Pochi mesi dopo la Marina Militare americana dichiarò la sperimentazione con il Vought V-173 (questo il nome dell’aereo) conclusa.
Nel 1990 il Pentagono sperimentò un oggetto che già dal nome si manifestava oscuro: l’MSSMP (Multipurpose Security and Surveillance Mission Platform) fu progettato come mezzo di supporto tattico multiuso. Le finalità previste per il suo utilizzo spaziavano dal controllo degli incendi boschivi al supporto alle forze di soccorso in aree colpite ad esempio da catastrofi naturali, costituendo ponti radio; le applicazioni più strategiche comprendevano molte operazioni di ricognizione.
Oggi l’oggetto del desiderio del Pentagono va sotto il nome di “GFS Projects” (“Geoff’s Flying Saucer”), e sta per il progetto di un velivolo in grado di sollevarsi dal suolo, librarsi in aria, muoversi a zig-zag e atterrare dolcemente.

Il tutto per mezzo di un ventilatore, che soffia aria all’interno del velivolo verso l’alto; l’aria discende poi internamente lungo la superficie curva grazie proprio all’effetto Coandă, dando così portanza al mezzo, e sollevandolo.

La neve inventata/2

(continua il post del 8/1/2010)
Gli usi della neve artificiale a sostegno della grande industria dello spettacolo furono tipici degli anni ’30: nella realizzazione dei film hollywoodiani, i materiali artificiali in uso non garantivano la brillantezza della neve appena scesa, mentre i cumuli non presentavano la struttura cristallina propria del naturale. La neve artificiale era prodotta con macchine che riscaldavano silicati di alluminio o di potassio, somiglianti in qualche modo a un cumulo di neve. Le “grattugie” per il ghiaccio, tuttavia, erano ancora le macchine più diffuse.
La seconda Guerra Mondiale portò con sé la necessità di ridurre l’impiego di materiali ricchi, e si dovette ricorrere a soluzioni economicamente più vantaggiose, come una mistura di sapone e un po’ d’acqua, che lasciata asciugare poteva essere divisa in piccole particole; queste non erano proprio uguali ai fiocchi di neve, ma per effetti scenici e decorazioni servivano egregiamente alla bisogna.

Le prime applicazioni sciistiche della neve artificiale risalgono all’immediato dopoguerra e, come in molti altri casi nella storia delle tecniche, più realizzazioni giunsero allo stesso tempo e indipendentemente a risultati simili.

L’inverno del 1948 fu avaro di neve, almeno nella parte orientale degli Stati Uniti; William Schoneknecht, che gestiva una stazione sciistica in Connecticut, per non perdere i ricavi di un’intera stagione fece trasportare sulle piste qualcosa come 500 tonnellate di ghiaccio, che tritato sul posto poté fungere da neve per qualche settimana. I costi di questa soluzione erano però insostenibili al di fuori dell’episodio.

Pochi anni dopo la novità: all’inizio degli anni ’50, durante gli studi sul congelamento delle prese d’aria dei motori a reazione, in un laboratorio di ricerca canadese fu trovato in maniera casuale un metodo efficace per la produzione della neve artificiale. Ray Ringer, il direttore della ricerca, notò che l’acqua spruzzata sulle prese d’aria del motore non si trasformava in ghiaccio, ma ricadeva nella galleria del vento sotto forma di neve. A nessuno dei ricercatori interessava però quella proprietà, così nessuno pensò di brevettarla.
Contemporaneamente, proprio a causa dell’inverno del 1948, l’azienda di Wayne Pierce, produttore di sci, finì sull’orlo del fallimento. Pierce si ingegnò a trovare un metodo per risollevarne le sorti, e il risultato fu l’applicazione combinata di un compressore, di un tubo da giardino e di un diffusore spray: l’acqua nebulizzata nell’aria fredda cristallizzava immediatamente in piccoli cristalli di neve. Questo “cannone” fu poi montato su di una specie di slitta, che scorreva lungo la pista, innevandola da cima a fondo.
L’alto fabbisogno di energia e il rumore prodotto dai compressori erano svantaggi di non poco conto per questo metodo. L’americano Alden Hanson risolse entrambi i problemi con l’applicazione di un ventilatore: ne risultava una pioggia di minutissime goccioline, che a contatto con l’aria gelida si trasformavano in cristalli di neve. La realizzazione risale al 1958, e come il metodo di Pierce è precursore di quelli che sfruttano la miscelazione in pressione di aria e acqua, così l’idea di Hanson è antesignana dei successivi sistemi che usano il fan o ventilatore per diffondere le goccioline d’acqua nell’atmosfera.
I decenni successivi videro il miglioramento delle applicazioni di questi due schemi, anche grazie all’aumento delle conoscenze sul processo di formazione della neve naturale nell’atmosfera. La cosiddetta “nucleazione” delle gocce d’acqua in atmosfera fredda (ossia, la formazione dei cristalli di neve) è stata studiata approfonditamente, e oggi si dispone di modelli teorici che la spiegano sufficientemente bene da riprodurre le stesse condizioni di pressione e temperatura per il corretto funzionamento di lance e “cannoni”.
Oggigiorno, anche a causa degli attesi mutamenti climatici, circa il 70% delle piste alpine è fornito di sistemi di innevamento artificiale, che sono pure massicciamente diffusi oltreoceano. Una soluzione obbligata per dare certezza di inverni “in discesa” a milioni di sciatori.

(continua)

La neve inventata/1

Risale quasi a 400 anni fa, al 1° gennaio 1611, il dono del libello Strena, seu de nive sexangula, da parte di Giovanni Keplero all’amico praghese Johannes Wackenfels.
Nel libello si tratta delle ragioni ultime per cui i fiocchi di neve hanno la particolare forma esagonale, visibile anche a occhio nudo: Keplero intuisce la soluzione di una classe di problemi, quella della minimizzazione (che si traduce nella soluzione di un problema con il minimo dispendio di risorse), che solamente un secolo e mezzo più tardi avrebbe trovato una formalizzazione stabile. In pratica, il fiocco elementare di neve ha una simmetria esagonale perché in questo modo minimizza lo spazio tra i cristalli, così come le celle dell’alveare, anch’esse esagonali, utilizzano la minima quantità di cera a parità di volume interno utile. La stessa simmetria esagonale è mostrata dalle bilie su di un piano quando le si vuol collocare alla minima distanza reciproca.
A motivo primo della simmetria esagonale, Keplero porta la volontà divina, che si attua attraverso vie imperscrutabili, ma condotte in ogni modo attraverso numeri e simboli. Così il sei è numero che rappresenta la trinità con i suoi analoghi: il Sole per il Padre, la sfera delle stelle fisse per il Figlio e i sei pianeti (quelli noti) per lo Spirito Santo. Allo studioso è lasciata solo qualche ipotesi, come la presenza di un qualche sale che funga da catalizzatore della struttura cristallina. Poco più di una consolazione.
Proprio mentre Keplero scriveva la Strena, un altro celebre scienziato, l’astronomo Gian Domenico Cassini, direttore dell’Observatoire parigino dal 1671, descrisse con disegni ricchi di particolari le forme e le caratteristiche dei “fiori di brina”, per come erano anche chiamati i fiocchi di neve.
In un volume dei Comptes rendues dell’Académie parigina apparvero così bellissime rappresentazioni, che, secondo un costume tipico dell’età barocca, lasciavano spazio a qualche “voluta” aggiuntiva.
Anche il fisico Robert Hooke riprende proprio in quel periodo il tema dei cristalli di neve, producendone una delle raffigurazioni più celebri.

Facciamo ora un salto di duecentosettanta anni: “Per neve l’inventore intende particelle acquee congelate in forma di cristalli ed anche ghiaccio ridotto a più o meno fina polvere, somigliante a neve in apparenza”. Così inizia la descrizione della privativa industriale concessa a Frédéric Mackay, di Liverpool, il 31 marzo 1881; il titolo della privativa è “perfezionamenti nella produzione artificiale della neve”.
I metodi utilizzati a quel tempo consistevano per lo più nella frantumazione del ghiaccio; l’invenzione, invece, è degna di nota, perché sfrutta “uno scompartimento o tubo, dove l’atmosfera sia stata ridotta coi metodi conosciuti al punto del congelamento dell’acqua e dove s’inietta dell’acqua, preferibilmente ridotta al punto o presso il punto di congelazione sotto tale pressione che la sforzi ad assumere la forma di un fino spruzzo”. Stranamente non è indicato alcun utilizzo del congegno, ma all’epoca erano forse troppo pochi gli sciatori, e ancora meno gli inverni poveri di neve. In ogni caso, si tratta della prima applicazione nota di un principio ancora oggi utilizzato per la produzione artificiale della neve.

Le prime applicazioni note della neve artificiale sono da ricercarsi negli Stati Uniti, dove tuttavia, ancora negli anni ’20, i mezzi per preparare la neve artificiale consistevano nella tritatura del ghiaccio, le cui porzioni potevano essere taken and used for edible or other purposes (“prese e usate a scopi alimentari e di altro genere”). L’unica finalità certa era quella alimentare, magari a corredo di un dolce; altri scopi non erano meglio noti.

(continua)