11 – moschetti, gatti e bertesche

Il problema della scarsa manovrabilità delle armi da fuoco pesanti fu in parte ovviato dalla costruzione, in parallelo, delle prime armi da fuoco “leggere”: notevole impatto sui campi di battaglia ebbe infatti l’introduzione dell’archibugio, che pur a fronte di un iniziale svantaggio rispetto all’arco (minore gittata, minore cadenza di fuoco) fu adottato massicciamente per l’estrema facilità d’uso, nonostante però necessitasse ancora di un apposito sostegno per esser usato.
L’archibugio fu poi sorpassato dal moschetto (dotato di calcio, quindi imbracciabile), che ebbe diffusione dall’inizio del xvii secolo, e che può essere considerato la prima vera e propria arma da fuoco portatile.
L’adozione delle armi da fuoco, in qualità di innovazione tecnologica, diede forte stimolo alla standardizzazione della produzione industriale.
Sino a tutto il Medioevo e per buona parte del xv secolo, ogni arsenale produceva la polvere nera secondo le proprie regole; si può parlare di formulazioni più simili a ricette che a composizioni caratterizzate da precisione e ripetibilità.
Con l’aumento dei numeri in gioco, la necessità di riparare i pezzi e quella di velocizzare i rifornimenti, si rese necessaria l’uniformazione dei pezzi di ricambio (per garantire l’intercambiabilità delle componenti) e delle munizioni a misure standardizzate.
I pezzi prodotti (cannoni e munizioni) erano inoltre controllati a mezzo delle dime, forme realizzate per poter riprodurre una spaziatura, il profilo o la forma di un oggetto, al fine di poter confrontare il risultato della produzione con un profilo ideale.
La qualità della fusione, infine, era controllata per mezzo di metodi spesso ingegnosi, atti a controllare l’eventuale presenza di crepe, punti di taglio, irregolarità di fonditura all’interno del prodotto finito.
Presso l’Arsenale torinese, ad esempio, si adottavano il metodo del fumo, quello dell’acqua e quello del “gatto”: il metodo del fumo consisteva nell’inserire della paglia ardente all’interno della canna del fucile, che veniva quindi subito tappata: qualora la canna avesse presentato delle imperfezioni, si sarebbe visto del fumo fuoriuscire, indice della presenza di crepe. Il metodo dell’ acqua si basava sullo stesso principio: veniva inserita dell’acqua nella canna del fucile lasciandola decantare per un determinato periodo di tempo. Qualora il livello dell’acqua fosse sceso, il pezzo sarebbe stato da scartare. Il metodo del gatto, infine, consisteva nel verificare l’eventuale presenza di rugosità e tagli all’interno della canna mediante l’utilizzo appunto del “gatto”, ovvero uno strumento fatto da un insieme di fili ferrosi, uncinati, che venivano fatti scorrere nella bocca del fucile, e che eventualmente si impigliavano in fenditure e irregolarità.
Le mura e in generale i profili di tutte le fortezze medievali subirono anch’esse le conseguenze dello sviluppo delle armi da fuoco, e furono costrette ad evolversi di conseguenza.
Le classiche mura medievali, edificate prima della diffusione di fucili e cannoni, erano progettate al fine di rendere quanto più difficile possibile l’ingresso della fanteria all’interno della città: erano quindi, innanzitutto molto alte ed estese, nei limiti delle possibilità economiche: mura più alte era sinonimo di maggiore protezione.
Vi erano inoltre fossati e dislivelli, che rendevano visibili i nemici a distanza di sicurezza, esponendoli al tiro delle balestre e degli arcieri nascosti dietro i merli delle torri di controllo, dal quale potevano essere lanciati anche proiettili sopra la fanteria intenta nell’opera di sfondamento. Il sistema era adatto a controllare anche gli angoli ciechi: per coprire meglio lo spazio tra le torri si costruiva una bertesca in legno, che sporgeva rispetto al filo delle mura e permetteva di sorvegliare gli angoli bui lontani dalle torri.
L’accesso alle torri e al cammino di ronda si effettuava con scale in legno potevano essere velocemente rimosse in caso di necessità.

11 – Fuoco!

Le armi da fuoco costituiscono un’innovazione tecnologica rivoluzionaria, per il peso avuto su tutto il sistema economico e produttivo alle loro spalle: l’invenzione e la successiva produzione della polvere da sparo, l’evoluzione delle tecniche di fusione metallurgiche a supporto di una sempre migliore qualità, sicurezza ed efficienza dei prodotti, la standardizzazione della produzione: più in generale, è lecito quindi parlare delle armi da fuoco come di una innovazione sistemica.
La tecnologia delle armi da fuoco ha origine in Cina, dove prima che altrove (la tecnologia cinese, sino alla comparsa della “scienza elettrica” ha in numerosissime occasioni preceduto quella occidentale) si svilupparono le conoscenze necessarie alla produzione della polvere nera, menzionata in un testo del 1044.
Solo verso l’inizio del xiv secolo, all’epoca di Dante, passando per il mondo arabo, la polvere da sparo arrivò in Europa. La sua disponibilità permise lo sviluppo della tecnologia delle armi da fuoco. Nello stadio iniziale del loro sviluppo queste avevano effetti più deterrenti che pratici: spesso si rivelavano pericolose per gli stessi loro utilizzatori e potevano addirittura risultare fatali. Un esempio è dato dal “mostro di Urban”: un fonditore di campane ungherese, Urban, dopo essersi offerto all’impero bizantino, si schierò con gli Ottomani, per i quali lavorò durante l’assedio di Costantinopoli del 1453. Proprio in quell’occasione morì per l’esplosione di una delle sue creazioni, ed è ricordato per l’enorme bombarda detta “mostro di Urban” : lunga 8 metri, pesante 48 tonnellate, i suoi proiettili di granito avevano una circonferenza di 3 metri e un peso di mezza tonnellata. Per trasportarla erano necessarie 50 paia di buoi; una volta posizionata non veniva più mossa per molto tempo, e aveva una cadenza di fuoco molto bassa, non superiore ai 5-8 colpi al giorno.
Oltre alla poca efficacia distruttiva, i pezzi d’artiglieria cinquecenteschi potevano essere pericolosi per i propri stessi utilizzatori, per via dell’alto rischio di esplosione. La tecnica metallurgica, pur migliorata, non garantiva fusioni sempre perfette, specie per i pezzi di grandi dimensioni. Una cricca, un difetto, un’inclusione di elementi che indebolivano la struttura, potevano risultare nella deflagrazione del cannone. Gli “scoppiettari”, addetti all’accensione dello stoppino dei cannoni, erano tenuti alla confessione prima delle battaglie, ed era fatta loro assoluta proibizione di formulare giuramenti.
Essendo l’arma da fuoco un oggetto al limite delle capacità e delle conoscenze tecnico-scientifiche del tempo, la sua produzione si rivestiva quindi di un carattere quasi esoterico: oltre che riccamente adornata e decorata, essa veniva anche benedetta e le era conferito un nome, al fine di ingraziarsi la divinità.
Le pratiche scaramantiche dei produttori e degli utilizzatori dei cannoni ricordano, per molti aspetti, quelle operate dal pontifex maximus romano, ossia la figura politica che si occupava della gestione amministrativa delle opere civili nell’antica Roma.
Il pontifex, infatti, godeva non solo un potere di ordine amministrativo-gestionale, ma si occupava anche del corollario di pratiche religiose che seguivano la costruzione di ponti e grandi infrastrutture in generale: scongiuri, sacrifici e altri gesti apotropaici e divinatori per cercare una sicurezza mistica che la scienza e la tecnologia del tempo non potevano assicurare completamente.
Questa tendenza dell’uomo ad affidarsi a entità superiori, nel momento in cui non riesce più a spiegarsi fenomeni naturali grazie unicamente alle conoscenze scientifiche e tecniche, non è caratteristica della sola età classica e del Medioevo, ma si protrae più in generale in tutta la storia della tecnologia fino ai giorni nostri: basti pensare alla rottura della bottiglia di champagne nel battesimo delle navi, erede e sostituta della polena dei velieri, o al nose painting, le decorazioni degli aerei da guerra che dalla Seconda guerra mondiale sino ai giorni nostri rendono unici i singoli velivoli.