16 – padroni dell’acqua

Il problema dell’energia è antico quasi quanto l’uomo, o almeno da quando l’uomo si dotò delle proprie appendici tecnologiche. Da sempre l’uomo ha cercato una fonte di energia per evitare una fatica o per sopperire all’insufficienza della propria forza.
L’acqua è stata ed è tuttora una delle più efficaci fonti di energia dalla quale l’uomo ha tratto supporto e profitto, ma prima dell’utilizzo a fini energetici, egli dovette risolvere il problema di attingere, distribuire e razionalizzare tale risorsa in modo da renderla utilizzabile.
In Medio Oriente, almeno dal i sec. a.C., fu utilizzato un sistema circolare che attraverso il ribaltamento ciclico di scodelle (il cosiddetto sistema “a norie”) permetteva il trasporto dell’acqua da un livello a un altro. Da allora, pur con l’apporto della tecnologia idrica dei Romani, gli avanzamenti furono pochi ma soprattutto, eccezion fatta per una crescente capacità di derivazione di canali da un corso d’acqua.
Una rilevante accelerazione si ebbe nel periodo rinascimentale, con i primi tentativi di quantificazione numerica delle risorse idriche; ciò avvenne proprio in Italia perché la penisola era (e rimane) molto più scarsamente rifornita di acqua rispetto ai paesi del Nord Europa: l’acqua era un bene, poiché, essendo limitato, era suscettibile di valutazione economica.
La prima macchina che consentì di sfruttare l’energia cinetica di un corso d’acqua in energia fu il mulino. Si hanno testimonianze di mulini ad acqua sin dal i sec. a.C., in epoca romana, e la tecnologia dei mulini non cambiò di molto sino a tutto il Medioevo.
Il funzionamento era basato sul flusso continuo e unidirezionale di un corso d’acqua che con il suo scorrere metteva in rotazione le pale del mulino. La trasmissione del moto della ruota avveniva per mezzo di ruote dentate.
Una prima forma di evoluzione, che non fosse solamente circoscritta a ottimizzare le prestazioni del mulino in sé, fu quella di mettere quasi in serie e in parallelo più mulini, l’uno in prossimità all’altro.
Un esempio di quest’evoluzione sono certamente i mulini di Barbegal. Il complesso risale agli inizi del iv secolo d.C. Posto su di un pendio, era composto da due serie parallele di otto ruote alimentate da due canali derivati dall′acquedotto di Arles. Le ruote idrauliche avevano un diametro di 2,7 m. Un carrello che si muoveva su un piano inclinato consentiva di far salire e scendere i carichi attraverso un meccanismo idraulico.
Quest′impianto consentiva una capacità di macinazione complessiva di 4 tonnellate di farina al giorno, sufficienti al fabbisogno di una popolazione di più di 10.000 abitanti, la popolazione di Arles a quel tempo.
Il primo campo nel quale fu impiegata la forza meccanica ottenuta dalla trasformazione dell’energia cinetica dell’acqua in lavoro fu la macinazione del grano.
Nel palmento mobile (mosso da una ruota dentata mossa a sua volta dalla ruota ad acqua) si ha un foro centrale attraverso cui cade il grano da macinare. Quando il palmento mobile si appoggia a quello fisso e si mette in moto, si sgretola il chicco; la farina scende attraverso le scanalature fuoriuscendo all’interno della cassa. Si può già dunque ben capire che l’ordine di accuratezza operativa di questo tipo di macchine, e specialmente nei palmenti, è comparabile alla dimensione di un chicco di grano o anche molto inferiore; si tratta di un caso di gestione della precisione pur ancora all’interno del paradigma del pressappoco.
Man mano che l’evoluzione tecnica va avanti si trovano sempre nuove applicazioni per il mulino. La fucina dei metalli fu la seconda grande applicazione della forza dell’acqua. La ruota a pale fa girare l’albero principale sul quale sono infissi cavicchi di legno che nella rotazione si appoggiano sulla coda del braccio del maglio, sollevandolo. Quando il cavicchio continua la rotazione, l’asta e il maglio alla sua estremità cadono sopra l’incudine sul ferro incandescente. La velocità delle battute dipende dalla ruota a pale e dalla velocità dell’acqua che le colpisce.
Col crescere delle esigenze e delle possibili applicazioni bisognava anche far fronte a problemi logistici sempre più articolati. Da semplici deviazioni di corsi d’acqua, i canali divennero oggetto di ingegnerizzazione e parte integrante del tessuto urbanistico e “industriale”.
A Torino, sin dal 1580 Emanuele Filiberto trasformò buona parte delle segherie in macine adibite alla produzione di polvere da sparo per evitare una dipendenza quasi totale dalle forniture estere: nacque così la Regia Fabbrica delle Polveri e Raffineria dei Nitri, che doveva essere alimentata in modo costante da un corso d’acqua di dimensioni sufficienti. Tuttavia, già dal 1717 lo stabilimento fu dotato di una macina mossa da cavalli che permetteva di non subordinare il funzionamento degli impianti alle discontinue piene della Dora.
Con l’aumentare degli ostacoli e delle esigenze, con l’accrescersi della volontà di rendere sempre migliori le prestazioni delle macchine alimentate dalla risorsa idrica, si verificò un ragguardevole sviluppo di due discipline: l’idraulica e la termodinamica, con la conseguente meccanica delle macchine a vapore.
Il rinnovo dell’idraulica vide i suoi principali interpreti in Edme Mariotte, Isaac Newton e Daniel Bernoulli, che si occuparono di studi di vario genere, compresi alcuni di grande importanza sulla geometria delle pale.
Il perfezionamento principale non fu dovuto al lavoro teorico degli scienziati, ma a esperimenti su modelli ridotti (John Smeaton nel 1762 e 1763 e Jean-Charles de Borda nel 1767).
All’inglese Smeaton si dovette l’aumento regolare dei rendimenti dei motori idraulici tra il 1750 e il 1780. Il xviii secolo fu il periodo in cui si ebbero i principali progressi nel campo.

06 – tutte le strade portano a Roma

Alla base delle strade romane erano fondazioni eseguite a mano, poi degli strati impermeabili che preservavano dall’acqua. A questi era sovrapposto un nucleus, un sostegno per il pavimento vero e proprio.
Nella costruzione di strade si usavano rulli in pietra descritti anche da Virgilio.
Gli ingegneri romani tentavano sempre di adoperare materiali locali, in modo da avere le cave in pietra in prossimità della strada da costruire.
L’uso della malta di calce (calce o pozzolana come legante, sabbia e acqua) fu importato dall’edilizia ellenica verso il 300 a.C. Con pietrisco, cocci di terracotta e mattoni frantumati preparavano un fondo che poteva penetrare tra gli interstizi delle pietre degli strati di fondazione per dare maggiore solidità. Si usava anche il fondo di ghiaia, con il risultato di una strada in calcestruzzo (composto di cemento come legante, un inerte come la ghiaia e acqua).

Il procedimento tecnico usato dai Romani per organizzare i terreni agricoli si chiama “centuriazione” ed è un metodo valido per un territorio pianeggiante e ricco di acqua come quello della valle Padana: boscaglie e paludi vengono eliminate per guadagnare fertili terreni agricoli, per assegnare ai cittadini delle colonie; l’area coltivabile viene non solo parcellata (suddivisa) ma anche attrezzata con strade, sentieri e una rete di canali, di scoli e di fossi.
La suddivisione del territorio e l’assegnazione delle terre ai coloni si realizzavano tracciando sul terreno un reticolo ortogonale di maglie quadrate (centurie) di circa settecento metri per lato, con una superficie di circa 50 ettari. Le linee divisorie formanti la centuria, prendono il nome di “cardini” e “decumani” (i primi nella direzione sud-nord e gli altri secondo quella est-ovest), più genericamente chiamati limites. Gli assi principali tracciati per primi dagli agrimensori si chiamano Decumano e Cardo Maximum. Lo strumento usato per questa operazione era la groma, sorta di squadra con piombi il cui uso prevedeva di traguardare attraverso i fili condotti dai piombi.
Terminata la suddivisione del suolo, agli incroci del limites erano posti dei cippi in pietra chiamati “termini” cioè pietre di confine sulle quali erano incise le coordinate della centuriazione. I confini erano considerati sacri e le pietre di confine onorate come divinità.
La forma dell’appezzamento era quadrata, ed era funzionale all’uso, da parte dei legionari in pace, dell’aratro semplice o a chiodo, il cui funzionamento è molto diverso da quello dell’aratro pesante, per il quale è sufficiente una sola passata. L’aratro a chiodo era trascinato una prima volta (vista la leggerezza dello strumento, l’operazione poteva essere compiuta senza l’ausilio di animali) con delle passate parallele a due dei lati. Era così tracciato un piccolo solco. Avveniva poi la seconda passata, le cui linee erano perpendicolari a quelle della prima, e consentivano l’innalzamento e il ribaltamento delle zolle di terra, risultanti in un’aratura di qualità sufficiente.

La noria era, insieme alla vite di Archimede, uno strumento utilizzato dai Romani per i lavori di drenaggio. Esse, insieme con sistemi di pompaggio in bronzo, sono state descritte già da Erone e Vitruvio, ed erano ancora in uso nel xix secolo. Tuttavia, il maggiore impegno nella tecnologia idrica (e i migliori risultati ottenuti) dei Romani si concentrò sui sistemi di mulini (come nel caso di quelli di Barbegal, presso Arles, in Francia).
La funzione dei mulini era di produrre macinato sia per esigenze locali, sia per il sostentamento della capitale: all’apogeo dell’Impero romano, infatti, ogni anno entrava in Roma almeno mezzo milione di tonnellate di frumento, per sfamare il milione di persone che nel i e ii secolo d.C. vi abitava.

Anche la tecnologia militare vide qualche realizzazione tecnica di rilievo: l’onagro e la cheiroballista (o chiroballista) potevano scagliare rispettivamente massi di qualche centinaio di chili a centinaia di metri di distanza e grandi frecce con notevole potenza.

Infine, fu messo a punto un sistema di comunicazione ottico che si rivelò di una certa utilità: un sistema di due gruppi di 5 aste con bandiera permetteva la trasmissione di alcune fondamentali comunicazioni. Collocato in punti strategici, il sistema permetteva una veloce comunicazione alle truppe.