Innocenzo Manzetti, inventore del telefono/2

(continua il post del 2/1/2010)
Il telefono di Meucci, utilizzando la polvere di carbone per convertire il segnale vocale in impulso elettrico e, dall’altra parte, per riconvertire il segnale elettrico in voce, adotta una logica che, con una terminologia successiva, può essere definita come fuzzy: non ci sono solamente due valori validi (l’acceso/spento, lo zero e l’uno, l’on/off, il sì/no, il passa/non passa e così via), ma tutta una serie di valori intermedi, che da un lato danno le “sfumature” della voce umana, e dall’altro permettono un campionamento a frequenza ben maggiore di quella massima (i citati 3 kHz) tipica della voce. L’apparecchio dello scienziato toscano poteva campionare a una frequenza circa doppia (dunque, circa 6000 volte al secondo) il segnale vocale, consentendo così una sua ricostituzione fedele dall’altro capo della linea, e rispettando così la condizione di Nyquist, in virtù della quale il campionamento di un segnale è efficace se la frequenza alla quale questo avviene è almeno doppia di quella del segnale stesso.

Altri precedenti. La pur interessante invenzione di Innocenzo Manzetti perde ulteriormente valore di originalità se comparata con un’invenzione di almeno quattro anni prima. L’invenzione in questione è quella dell’inglese Philip Rice, che ottenne risultati assolutamente simili (e in qualche misura migliori) a quelli di Vanzetti con il proprio apparecchio telefonico. Si tratta anche in questo caso di un apparecchio del tipo make-and-break, probabilmente basato sulla descrizione presentata nel periodico “Didascalia”, nella quale Charles Bourseul prospettava la possibilità di uno strumento capace di replicare la voce umana a distanza.
L’invenzione di Rice fu anche migliore di quella di Manzetti: anziché realizzare un contatto chiuso/aperto, per mezzo della regolazione di un chiodo di contatto l’inventore realizzò un contatto cosiddetto labile, che poteva ammettere valori intermedi tra lo 0 e l’1. Il grosso inconveniente di questo sistema era la necessaria presenza costante di un operatore, che regolasse una vite per mantenere il contatto nella configurazione geometrica iniziale.

Il télégraphe parlant non riveste carattere di particolare interesse per la storia della tecnologia. La sua presunta importanza attestata da vaghe presenze di stranieri recatisi ad Aosta per carpirne i segreti non è giustificata da un reale valore. Ammettendo anche che tali visite possano essere realmente avvenute (si esclude in ogni modo quella ipotizzata di Bell nel 1861, poiché all’epoca l’inventore americano era quattordicenne, come pure fatto rilevare dalla rivista americana “Electrical World”), non è in ogni caso l’interesse suscitato a mutare la natura dell’invenzione.

Anche il risultato dell’indagine, svolta nel 1910, di una Regia Commissione che lavorò per determinare la vera validità del trovato di Manzetti, diede risultati analoghi, in questo caso per l’assenza di una qualsiasi attendibile documentazione relativa al principio di funzionamento.

L’invenzione di Manzetti non ha, in definitiva, gran valore, poiché effettua un campionamento del segnale vocale pensato secondo i “vecchi” schemi di trasmissione del telegrafo, nel quale l’uso di un pulsante permetteva le successive chiusure e aperture del circuito, che a loro volta formavano i simboli di un codice. Il telefono di Meucci e quello di Bell fanno uso di una tecnologia che realizza una logica a valori sfumati, non solo l’“acceso” e lo “spento”, grazie alla quale la voce può essere fedelmente riprodotta.

Il mancato riconoscimento del genio del tecnico valdostano non è da ricercarsi nella sua prematura morte (va peraltro ricordato che Galileo Ferraris, contemporaneo di Manzetti, morì a soli cinquant’anni, e lasciò di sé tracce più che permanenti), e nemmeno nella sua residenza in una zona periferica (Manzetti frequentò diversi anni di scuola a Torino, dove l’Ufficio Brevetti operava in modo proficuo, accogliendo “trovati” ben più bizzarri di quello del “telegrafo parlante”). Piuttosto, il mancato tentativo di far riconoscere la propria invenzione dipende dall’indole poco “pubblica” del genio aostano. Tutto ciò detto, anche se Manzetti avesse ottenuto una privativa industriale, oggi non ne si parlerebbe per certo come il padre del telefono.

Innocenzo Manzetti, inventore del telefono/1

Ogni anno, il periodo estivo vede l’apertura di una mostra, dal titolo “Au fil del ondes – 150 ans de télécommunications en Vallée d’Aoste”. La mostra si tiene presso il comune di Avise (AO), e celebra soprattutto l’inventore del telefono, Innocenzo Manzetti, al quale è dedicata la piazza antistante la stazione ferroviaria di Aosta. Peccato che la sola affermazione indubitabile sia legata al nome della piazza.

Innocenzo Manzetti può indubbiamente essere definito come “genio”: nella propria pur breve vita (morì a 51 anni nel 1877) costruì un automa suonatore di flauto, un pappagallo volante in legno per la propria figlia, una pompa idraulica per la bonifica delle miniere, un tipo di telescopio, una sorta di bicicletta e un tipo di pianoforte, oltre a una serie di strumenti utili alla propria professione di geometra.
Si cimentò anche nella realizzazione di un apparato per la trasmissione della voce umana a distanza. Chiamò tale apparecchio télégraphe parlant, e l’origine di tale applicazione è da ritrovarsi nella sua abitudine giovanile di utilizzare un cappello à gibus per trasmettere, a mezzo di una corda, il suono della propria voce.
Il telegrafo parlante creò una certa risonanza nei giornali italiani; tra il 1865 e il 1866 ne si ebbe notizia in numerosi: “L’indépendant” di Aosta, “Il Diritto” di Torino, “La Feuille d’Aoste”, “L’Italia” di Firenze, “L’Eco d’Italia”, pubblicato a New York, il “Petit Journal” di Parigi, “Il Commercio” di Genova e “La Verità” di Novara. Tale diffusione non ebbe luogo per azione di Manzetti, uomo schivo, ma dei propri conoscenti. La poca attitudine alla formalizzazione dei propri progetti rese possibile la conoscenza del principio di funzionamento del telefono solamente grazie alla trascrizione a opera dell’amico dottor Pierre Dupont, oltre che alle notizie riportate dal canonico Bérard.
Lo stesso Antonio Meucci, portato a conoscenza dell’attività del tecnico Manzetti tramite la lettura de “L’Eco d’Italia” negli Stati Uniti, scelse di puntualizzare la propria posizione con una lettera, inviata sia al medesimo periodico sia a “Il Commercio” di Genova, nella quale poneva l’accento sulle proprie realizzazioni attorno alla trasmissione telefonica, iniziate sin dal 1849.
Il tono di Meucci, in ogni caso, era molto accomodante, con affermazioni del tipo “…non pretendo negare al Signor Manzetti la sua invenzione, ma soltanto voglio fare osservare che possono trovarsi due pensieri che abbiano la stessa scoperta e che unendo le due idee si potrebbe più facilmente arrivare alla certezza di una cosa così importante”, anche se il carteggio dello stesso scienziato toscano con l’amico Enrico Mendelari cercava di escludere ogni possibile forma di divulgazione dei risultati delle proprie ricerche.

Prima e dopo Manzetti. Da un punto di vista tecnologico, il telefono di Manzetti, pur essendo una realizzazione sviluppata in modo indipendente, non ha carattere di originalità.
Prendendo per buoni gli schemi presentati nel testo di Caniggia e Poggianti (Mauro Caniggia, Luca Poggianti, Il Valdostano che inventò il telefono: Innocenzo Manzetti, Aosta : Centro Studi De Tillier, 1996), che a loro volta derivano dalle note del dottor Dupont, si possono compiere alcuni confronti che motivano questa affermazione.

Il confronto con il telefono di Meucci. Il primo confronto è con il telefono di Meucci, che si prese la briga di puntualizzare le proprie precedenze con le lettere a cui si accennava. La fondamentale differenza tra il “trovato” di Meucci e il “telegrafo parlante” di Manzetti è di tipo architetturale, addirittura archetipico.
Manzetti adopera un circuito che attua un campionamento della voce del tipo make-and-break: come già avveniva nel telegrafo, la voce provocava una commutazione del circuito dallo stato aperto a quello chiuso e viceversa, a seconda che la lamina metallica costituente il sistema di ricezione fosse colpita o meno dalla vibrazione originata dalla voce. Strutturalmente, tale circuito non può realizzare un campionamento a frequenza maggiore di quella propria della voce (attorno ai 3 kHz). In altri termini, a fronte di un segnale che varia circa 3000 volte all’interno di un solo secondo, si “preleva” il valore del segnale un numero di volte paragonabile al primo.
Ciò significa che non si trasmette fedelmente il segnale vocale: sarebbe come voler certamente trovare una persona che si ferma per tre ore (non si sa quali) al giorno in un luogo soffermandoci noi stessi in quel luogo per tre ore (scelte a caso) nella giornata.
La figura qui sotto (tratta da http://pcfarina.eng.unipr.it/) dà un’idea più precisa dei rischi di un campionamento a frequenze non sufficientemente elevate.
Campionando a 0,25 millisecondi (effettuando cioè una misura dell’ampiezza d’onda con una frequenza pari alla maggiore delle due frequenze d’onda) si hanno due possibili onde che passano per i punti misurati; campionando a una frequenza doppia (0,125 millisecondi) la possibile ambivalenza, o aliasing, scompare.

(continua)