02 – documenti!

(continua il post del 26/02/2010, h. 17.30)

La ricerca storica si basa sui documenti. Ogni teorizzazione, ogni periodizzazione e ogni racconto si devono basare su “pezze di appoggio”, su sostegni materiali che forniscano, direttamente o indirettamente, un insieme di informazioni sul quale i primi si fondano.
Ora, non tutto ciò che ci circonda vale come documento; vi sono delle caratteristiche necessarie perché qualcosa lo sia.
Sinteticamente, un documento può essere definito come:
– un supporto fisico,
– contenente informazioni,
– corredate di:
* autore,
* data
* e luogo.

Nel momento in cui un documento è utilizzato per una ricerca storica, questo diviene una fonte. Tra le fonti, poi, si distingue tra fonti primarie e fonti secondarie.
E’ più comodo definire prima queste ultime, poiché in questo novero sono inclusi tutti i documenti che derivano da elaborazioni storiche. Ogni opera di uno storico (una monografia, un articolo) è una fonte secondaria perché non è una fonte di prima mano; non è una fonte redatta da qualcuno che ha vissuto direttamente un evento, e comunque il suo autore, anche se era presente nel momento in cui si svolgevano gli eventi di cui racconta, ha deciso di basarsi su altre evidenze o testimonianze.
Un esempio può chiarire la distinzione: un manuale di ingegneria del xiii secolo non è stato sicuramente scritto a fini storici, e come tale non è quindi una rielaborazione di documenti secondo il metodo storico. Esso, tuttavia, diventa documento e fonte storica quando uno storico (della tecnologia o di altra branca) lo utilizza, sette secoli dopo, per aggiungere informazioni alla propria analisi. All’estremo, anche una fonte “originariamente secondaria” come un manuale di storia del xix secolo, può diventare una fonte primaria quando non lo si considera per le nozioni in esso contenute, ma per la visione che fornisce sul modo di intendere la storia in un certo contesto.
La ricerca bibliografica prevede poi l’applicazione di alcune norme operative, non lontane dal senso comune, ma da tenere sempre presenti nell’economia dello studio intrapreso:
– banalmente, le fonti devono rispondere ai requisiti di contenuto (se ci si occupa della storia di un trattore, saranno le riviste di agricoltura a poter essere inserite nel novero delle possibili fonti; a priori, non certo quelle di metallurgia);
– le fonti devono essere geograficamente accessibili: la Smithsonian Institution di Washington possiede numerose collezioni bibliografiche, ma per un europeo la sua accessibilità è relativamente bassa, se non si dispone di adeguati fondi;
– le fonti devono essere fisicamente disponibili: banalmente, un testo non deve essere in prestito o in restauro;
– le fonti devono essere efficacemente consultabili: esistono numerosi manoscritti la cui visibilità e leggibilità sono addirittura negate.

Tenuto conto di queste regole, non rimane altro che iniziare lo studio vero e proprio. Sino alla successiva necessità di consultazione bibliografica.

02 – la storia nel caos

(continua il post del 26/02/2010, h. 17.00)

Il saggio di Carr affronta ancora un tema che sembra anticipare una teoria, che proprio negli anni attorno alla pubblicazione di Sei lezioni sulla storia vedeva la comparsa di un articolo fondamentale. Si tratta della teoria del caos (e di quella dei frattali, alla prima intimamente legata), con l’articolo di Edward N. Lorenz Deterministic non-periodic flow, apparso sul “Journal of the Atmospheric Sciences”, vol. 20, pp. 130–141 (1963). Per quanto la trattazione del problema sia non banale, il messaggio principale che ne viene, e che ben si adatta a una giustificazione del metodo storico per come definito qui sopra, è il seguente: piccole, quasi insignificanti modificazioni (propriamente, “nel continuo”) delle condizioni iniziali possono portare a mutamenti radicali (propriamente, “nel discreto”) nei risultati finali. Il naso di Cleopatra e la scimmia di re Alessandro sono esempi di questi piccoli fattori perturbanti iniziali, che hanno risultanze enormemente maggiori.
La storia è così in balía di ogni refolo di vento?
Anche qui viene in soccorso l’assunzione per la quale i fattori più importanti determinano l’andamento di fondo delle vicende storiche. Esistono variazioni indotte da nasi e scimmie, ma si tratta di “disturbi” che in realtà non mutano le correnti di lungo corso; anzi, in alcuni casi si potrebbe dire che ne facilitano l’emergere.
Secondo Carr, è pur vero che i grandi uomini hanno plasmato la storia, ma se fossero nati e vissuti in epoche o luoghi diversi, non sarebbero certo stati grandi uomini. Seguendo la definizione di Hegel, “il grande uomo è l’unico che sia in grado di esprimere la volontà del proprio tempo, di dire al proprio tempo quale sia la sua volontà, e di esaudirla”. Sempre secondo Carr, il grande uomo rappresenta forze già esistenti o che egli stesso contribuisce a suscitare con la sua sfida all’autorità esistente. Niente paura, la storia ha le idee chiare, anche se per noi non sono facilmente visibili.
Un’analogia che può forse chiarire come gli eventi singoli e le azioni dei singoli siano o di poca rilevanza, o addirittura non facciano altro che andare – o favorire – in una direzione già tracciata, è quella della valanga. Un fronte di valanga è caratterizzato da una sua instabilità, ossia è probabile che esso si stacchi e scenda verso valle. Non è però agevole sapere quando ciò avverrà, e soprattutto quale sia l’evento che provocherà il distacco. Una palla di neve lanciata a terra in un punto può non sortire alcun effetto, così come mille altre; una successiva sola, invece, può agire su di un punto, una singolarità della conformazione fisica della parete, provocando l’inizio della discesa del fronte nevoso. Ancora, il punto nel quale può si può originare tale evento non è unico, ma nessuno tra questi è noto a priori. La palla di neve non è per forza diversa dalle altre (si concede che è probabile che se è più grande, possa essere più possibile la rottura del fronte); è la sua presenza in un certo punto in un certo istante (non nel cuore dell’inverno, ma in primavera, ad esempio) a rendere l’azione di quella palla determinante.
Nell’analogia, basta sostituire all’idea di fronte della valanga un contesto storico (sociale, economico, tecnologico, religioso, ecc.) e a quella del lancio della palla di neve l’azione del singolo individuo: vi sono delle tendenze di fondo che non possono essere create dai singoli individui; questi, tuttavia, possono essere la causa scatenante di mutamenti di grande portata. Questi avevano già grande probabilità di accadere, e l’azione del singolo non ha fatto altro che dare loro il via.

Quali sono i doveri di uno storico? Il suo agire deve seguire dei dettami etici? Verrebbe da dire che, dati per assunti quelli metodologici, il loro unico dovere è la documentazione: non devono cioè, nell’opera e nell’attività dello storico, entrare attivamente principi etici o morali. Lo storico non deve giudicare ciò che racconta e descrive, pena la distorsione delle valutazioni. Ecco nuovamente la comunità degli storici (si parla sempre di quella principale; potrà sempre esistere, ad esempio, una piccola comunità di storici che supporta il negazionismo) chiamata in causa: se il singolo dà giudizi di merito, sarà essa a riportarlo nell’ambito delle conoscenze condivise.

La storia è oggetto fortemente sociale, nell’oggetto di studio e nella modalità di compimento. Fare storia è come solcare un campo prima della semina. Il terreno è sempre lo stesso, e i solchi fatti dall’uomo si assomigliano, ma non sono mai i medesimi.

(continua)

02 – uno, nessuno e centomila

(continua il post del 26/02/2010, h. 16.30)

La moltiplicazione delle nozioni a disposizione pone problemi sull’uso di Internet come mezzo conoscitivo: pur in presenza di raffinatissimi motori di ricerca, la sensazione dello storico può ancora essere quella descritta ormai una quindicina di anni fa da Umberto Eco, che si descriveva come overwhelmed, “travolto”, dall’immensa mole di rimandi che “la madre di tutte le liste”, ossia Internet, gli proponeva una volta inserito un innocuo “Jerusalem” come chiave nel motore di ricerca. L’attitudine critica rispetto al mezzo Internet deve essere ben presente in chi lo voglia utilizzare come fonte per le proprie ricerche; se si eccettuano le pubblicazioni di articoli cartacei, tutti gli altri materiali devono poter essere attentamente verificati, anche se appartengono (è il caso di Wikipedia) a una rete sociale (si passi la traduzione di “social network”) che per definizione provvede alla loro revisione critica spontanea.
Ciò poiché l’accesso alla pubblicazione sul mezzo Internet è di qualche ordine di grandezza più facile rispetto a quello sulla carta. Attivare un blog non costa molto, anche nulla per l’utilizzatore, mentre una pubblicazione cartacea ha costi di produzione ripetuti ogni volta. L’attenzione alla validità dei contenuti è fondamentale per la stessa sopravvivenza del mezzo (posso invece scrivere un sacco di fandonie su di un blog senza per questo vederne la chiusura per la non rispondenza dei suoi contenuti con la posizione dominante degli storici su di un certo argomento).

La storia come insieme di fatti e andamenti univocamente determinati non esiste; esiste una nozione (e un suo corrispondente operativo) di storia socialmente e contestualmente variabile, ma in ogni momento coerente con le scelte operate da una stretta cerchia di persone, costituita dai professionisti del campo, gli storici, per l’appunto.
Le interazioni, i rimandi incrociati, le citazioni costituiscono i mezzi attraverso i quali le teorie dei singoli storici sono incluse e fatte proprie dalla comunità; si crea una rete di rimandi, che dà forma a una massa critica di nozioni e interpretazioni, che ha come effetto secondario l’esclusione di una costellazione di studi e pubblicazioni non incorporati perché ritenuti a vario titolo spuri (come la caduta da cavallo di cui sopra).

A questo punto sorge un dubbio: se la storia che studiamo dipende dalle decisioni di pochi, ci possiamo fidare di come è stata “fatta”?

Lo storico inglese Edward H. Carr, è autore di un volumetto, Sei lezioni sulla storia (Torino : Einaudi, 1966), dove espone alcune idee in merito alle ragioni del fare storia e alle motivazioni ultime per le quali la si fa.
Carr ritiene che il lavoro dello storico non possa essere paragonato a quello di un avventore che scelga dei pesci ben ordinati su di un banco al mercato, ma piuttosto alla fatica di un pescatore che si trovi a cacciare le sue prede in un oceano sconfinato. Il punto di partenza è nuovamente quello di Borges: l’infinità del reale (ma se la si tratta come indefinitezza il presupposto non cambia di molto) deve essere commisurata a termini manipolabili per l’uomo.
Aggiunge pure che uno storico non potrebbe mai scrivere due libri uguali su di uno stesso argomento, sostenendo come una qualsiasi interpretazione, oltre che soggettiva, è pure contestuale, dipendendo, ad esempio, dalle ulteriori conoscenze acquisite dallo storico e dalle sue relazioni con la comunità scientifica.
La situazione sembra peggiorare; la storia pare essere sempre più un capriccio di pochi.
Tuttavia, aggiunge lo storico inglese, “Il processo di ricostruzione guida la scelta e l’interpretazione dei fatti e anzi trasforma questi ultimi in fatti storici: i fatti senza un’interpretazione sono simili a sacchi vuoti, afflosciati su se stessi poiché privi di contenuto”. In qualche modo dobbiamo cioè metterci nelle mani di qualcuno che scelga e interpreti, per quanto particolarmente e soggettivamente, un insieme finito di avvenimenti, poiché questo è l’unico modo per non lasciarci travolti (overwhelmed) dalla potenza del continuo del passato.
Nessuno si deve così spaventare se “Chiunque faccia professione di storico, sa, se si ferma un istante a riflettere sul senso del proprio lavoro, che lo storico è perpetuamente intento a adeguare i fatti all’interpretazione e l’interpretazione ai fatti. E’ impossibile assegnare un primato all’uno o all’altro momento”. La soggettività alla base del lavoro dello storico è presupposto immancabile per la sua comprensione dei fatti e delle situazioni; sarà la comunità degli storici a vagliare, smussare, validare e accettare o rifiutare tutte o parte delle teorie esposte. La storia, in ultima analisi, è fatta non da un uomo, ma dagli uomini. Imperfetta sì, ma quanto di meglio si possa avere in giro.
Così come il metodo scientifico oscilla costantemente tra il momento sperimentale e la sintesi dei dati in una teoria, così il metodo storico oscilla tra la selezione dei fatti e l’interpretazione di questi.

Carr prende poi le distanze dagli storici idealisti, come Collingwood, o von Ranke, al quale si deve l’affermazione secondo la quale la storia deve parlare “di ciò che è realmente accaduto”:
“Siamo ben lontani dall’Ottocento, allorché gli scienziati, o gli storici, si aspettavano di poter fissare un giorno, mediante l’accumulo di fatti debitamente saggiati, un insieme di cognizioni che avrebbe risolto una volta per tutte i problemi rimasti aperti. Oggi, tanto gli scienziati che gli storici nutrono la speranza, ben più modesta, di passare via via da un’ipotesi circoscritta a un’altra, isolando i fatti per mezzo delle interpretazioni, e saggiando le interpretazioni per mezzo dei fatti”.

Nel momento in cui il metodo storico sembra allontanarsi dalle pretese di precisione e verificabilità, si avvicina invece al metodo scientifico, per come definito da Karl Popper. Le “congetture e confutazioni” di popperiana memoria sono un traguardo più realistico, e operativamente sono molto più utili. Parafrasando la posizione dell’epistemologo austriaco, potrebbe essere utile pensare un racconto storico come un modo per stimolare ulteriormente la ricerca, aggiungere nuovi documenti, nuove fonti, e modificare il racconto iniziale, per farlo aderire maggiormente a quella che si ritene la Storia.

(continua)

02 – la storia non esiste

Che cos’è la storia? Esiste una Storia? Che cosa si trova scritto in un libro di storia, generalista o settoriale che sia? Perché un accadimento è da ritenersi un fatto storico e un altro no?
La storia in quanto disciplina studia determinati insiemi di eventi, fenomeni, andamenti e oggetti che, per accordo di una comunità di studiosi, sono da ritenersi utili per la comprensione del passato.
Questa definizione non è esattamente operativa, ma questa la si deriva facilmente: la storia è anzitutto selezione. Non tutti gli eventi diventano oggetto di studio degli storici; non tutte le evoluzioni di conoscenza, non tutti gli andamenti di fenomeni sono giudicati suscettibili di analisi.
Due esempi estremi possono dare l’idea di che cosa potrebbe accadere disponendo della possibilità di infinita capacità di registrazione e rappresentazione.

Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una sola volta […]. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche ecc. […] Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. […] Egli ricordava […] non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata.

Il brano è tratto da Jorge Luis Borges, Funes, o della memoria, in Finzioni, in Tutte le opere, Milano : Mondadori, 1984-85, vol. I, pagg. 712-713.

In quell’Impero, l’Arte della Cartografia raggiunse tale Perfezione che la mappa d’una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero, tutta una Provincia. Col tempo, codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell’Impero, che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso. Meno Dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive compresero che quella vasta Mappa era Inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degl’Inverni.

Questo estratto invece arriva da Jorge Luis Borges, Del rigore della scienza, in L’artefice, in Tutte le opere, Milano : Mondadori, 1984-85, vol. I, pag. 1253.

La conoscenza infinita (o comunque indefinita) preclude una possibilità, il completamento logico dell’azione storiografica: l’interpretazione. Ancora prima di chiedersi se la storia abbia una sua utilità, occorre che essa porti a una comprensione ulteriore rispetto a una semplice elencazione di eventi.
Un’infinita teoria di particelle di conoscenza non permette di stabilire profondità di campo, possibilità di lettura critica. L’applicazione della principio di Pareto della prevalenza di alcuni fattori è criterio operativo massimo per la formazione di un corpus critico e criticabile, limitato, condivisibile e modificabile.

Per il mantenimento della propria coerenza, questo corpus di conoscenze può e deve soggiacere a un continuo processo di validazione della comunità degli storici. In altre parole, non chiunque può vedere una propria analisi storica entrare nel novero delle conoscenze storiografiche condivise.
Che per qualcuno sia importante un avvenimento del tipo “il 14 maggio 1932 mio nonno cadde da cavallo, procurandosi la frattura di una clavicola” non significa che ciò lo sia per tutti. Se questo qualcuno decidesse di pubblicare un articolo in merito, la comunità degli storici (che in questo caso include il redattore di una rivista) agirebbe per respingere tale nozione come facente parte della “storia”. Considerare eventi come questo porterebbe ad aberrazioni come quella di Funes. Da notare che non sarebbe sensato scrivere i libri di storia, perché non sarebbe possibile ordinare per importanza gli eventi noti e selezionati, e si potrebbero solamente scrivere immense ed inutili enciclopedie.

(continua)

01 – scimmie e dizionari

Il celebre film 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968) di Stanley Kubrick vede come capitolo introduttivo quello chiamato L’alba dell’uomo. Nella savana di una imprecisata zona dell’Africa vivono delle scimmie antropoidi, la cui alimentazione è prevalentemente vegetariana. Sono divise in branchi, che a volte si scontrano l’uno contro l’altro.
Un mattino sono risvegliate da un forte rumore, con tutta probabilità generato da un monolito nero, che appare e dona loro una nuova e rivoluzionaria forma di intelligenza.
A seguito di questa capacità, il loro capobranco ha un’idea: brandisce un osso lungo di tapiro, e inizia a sferrare colpi con questo. Lo userà come arma contro l’altro branco, e per cacciare piccoli animali. Le scimmie diventano anche carnivore. E’ la nascita dell’utensile, la nascita della tecnica.

Ma che cos’è la tecnica, e che cos’è la tecnologia?
La tecnica può essere definita come qualsiasi forma di attività umana finalizzata alla creazione di nuovi prodotti e strumenti che migliorino le condizioni di vita dell’uomo. La scimmia capobranco di 2001: Odissea nello spazio utilizza un nuovo strumento che migliora le condizioni di vita del proprio gruppo, e quindi utilizza propriamente la tecnica.
Rimanendo nell’ambito della tecnica, poco importa da dove giunga la conoscenza: da un monolito, dal caso o da un altro soggetto, con o senza l’ausilio di supporti (quale può essere un libro). Nell’uomo puramente tecnico non vi è sistematicità di azione, non vi è riflessione sul proprio agire, non vi è programmazione di un trasferimento ad altri delle conoscenze.
Ciò avviene invece con la tecnologia, parola che alla techné somma il logos, il discorso, la parola, in sintesi il pensiero. La tecnologia esiste quando l’uomo riflette sulle proprie azioni e su quelle compiute dai mezzi che utilizza per svolgerle.

Cercando tra alcuni dizionari si trovano queste definizioni:

tecnica [tèc-ni-ca]: 1 l’insieme dei procedimenti pratici da applicare per una specifica attività: Esempio: la tecnica della pittura su stoffa; la tecnica pianistica. 2 Attività umana di progettazione e costruzione di macchine e congegni di vario genere: Esempio: quella macchina è il risultato dei progressi della tecnica moderna.

tecnologia [tec-no-lo-gì-a]: studio dei procedimenti e dei mezzi necessari a trasformare una materia prima in un prodotto industriale: Esempio: i progressi della tecnologia elettronica VEDI tecnica.

Da Italiano compatto – Dizionario della Lingua Italiana, Bologna : Zanichelli, 2010

technique
1. a practical method or art applied to some particular task.

technology
1. the practical application of science to commerce or industry.
2. the discipline dealing with the art or science of applying scientific knowledge to practical problems; “he had trouble deciding which branch of engineering to study”.

Da Wordnet 3.0 (database lessicale inglese sviluppato dalla Princeton University sotto la direzione di George A. Miller)

technique A nf 1 Procédé particulier que l’on utilise pour mener a bonne fin une opération concrète, pour fabriquer un objet matériel ou l’adapter à sa fonction. 2 Ensemble des moyens, des procédés mises en œuvre dans la pratique d’une activité. […] 3 Maitrise plus ou moins grande, connaissance plus ou moins approfondie d’un tel ensemble de procédés. 4 Ensemble des applications des connaissances scientifiques à la production des biens et des produits utilitaires.

technologie nf Étude des techniques industrielles (outillage, méthodes de fabrication, etc.), considerées dans leur ensemble ou dans un domain particulier.

Da Dictionnaire Hachette Encyclopédique – Édition 2002, Paris : Hachette, 2001

La storia della parola, in italiano come in altre lingue, è relativamente recente: risale al 1821 la prima occorrenza del termine in Aquilino Bonavilla, Dizionario etimologico di tutti i vocaboli nelle scienze, arti e mestieri, che traggono origine dal greco, Milano : Pirola, 1821. Inizialmente il significato della parola era “trattato sulle arti” (ove per “arte” si intende qualcosa prossimo all’ars latina, corrispondente abbastanza bene ad “attività”) ed ha successivamente assunto quello di “studio della tecnica e delle sue applicazioni”.

Quasi meglio di Star Wars / 1

L’evento era già capitato qualche anno fa, e i maggiori interessati erano stati i portieri delle squadre di calcio. Qualche lamentela, qualche episodio, ma la cosa si era esaurita in modo abbastanza silenzioso, pur con qualche titolo sui giornali.
Ora, l’uso dei puntatori laser negli stadi calcistici italiani si ripete, in modo più diffuso, sia dal lato degli utilizzatori sia da quello dei bersagli. I portieri non sono più gli unici oggetto di queste attenzioni, ma tutti i componenti delle squadre, per quanto sia possibile “colpirli” quasi solo nelle fasi morte del gioco, a palla ferma.
Ai “puntamenti” negli stadi si aggiungono gli episodi, avvenuti a Bari, di accecamento di piloti di aerei in atterraggio. Sono stati segnalati molti casi, anche se in realtà pare che in nessuno il fastidio abbia costituito pericolo per l’incolumità dei velivoli e dei passeggeri.
Trovare le ragioni di questa maggiore diffusione non è così semplice, poiché la tecnologia dei puntatori è lievemente evoluta negli ultimi anni soprattutto per quanto concerne la potenza disponibile, ma non così tanto da giustificare un tale mutamento.
Una prima analisi dei social network non pare evidenziare resoconti di bravate, ma si fanno notare alcune presenze sul canale italiano di Youtube una volta impostata la ricerca con parola chiave “laser”. Il primo risultato che si ottiene è un video con le indicazioni su “come costruire un laser da 250 mW prendendo il materiale da un masterizzatore di DVD rotto”; il quarto è invece un filmato il cui titolo è “Laser Flashlight Hack” (una sorta di “trasforma una torcia laser”), mentre il sottotitolo recita “Turn a MiniMag flashlight into a burning laser pointer!! “, ossia altre indicazioni su come farsi in casa il proprio potente puntatore laser. L’ulteriore segnalazione “CAUTION!! Lasers can be dangerous! Do not point them at any living thing” rassicura, ma non completamente. Anche perché in entrambi i casi la potenza in gioco è delle centinaia di milliwatt, contro i 5 consentiti dalla legge per gli emettitori in commercio.

Tutti gli emettitori laser sono pericolosi per gli occhi? Lo possono essere anche per altre parti del corpo?

Il fatto è che di puntatori laser non ce n’è un tipo solo. Ce ne sono cinque classi (la 1, la 2, la 3a e la 3b e la 4), divise tra loro a seconda della potenza. Quelli di prima classe sono intrinsecamente sicuri. E così anche quelli di seconda classe, il raggio dei quali è sì visibile, ma di potenza inferiore a un miniwatt. Secondo gli esperti, è sufficiente la reazione istintiva del battito delle palpebre, per proteggere gli occhi dai suoi effetti. Dalla classe 3 si entra infine nel campo dei raggi laser dei quali è vietata la libera vendita dall’ordinanza del luglio del 1998 (ribadita poi dal decreto legislativo 206 del 2005, chiamato anche Codice del consumo).
I raggi di classe 3a hanno una radiazione visibile con potenza inferiore ai 5 miniwatt: sono pericolosi se visti tramite strumenti ottici. Quelli di classe 3b emettono una radiazione visibile o invisibile. La visione diretta o tramite riflessione speculare è sempre pericolosa. Infine, quelli di quarta classe, i cosiddetti laser di potenza. In grado di procurare danni da riflessioni diffuse, danni alla pelle. Inoltre, il loro raggio può scatenare incendi.

(continua)