La grande bellezza e l’urlo delle maiuscole inutili

Fateci caso. Appaiono negli annunci sponsorizzati su Facebook, nelle pubblicità, nei post condivisi da amici, nei libri di PNL, nelle presentazioni ai corsi, nelle biografie berlusconiane. Sono dappertutto. Sono le Maiuscole Inutili.
Facciamo un passo indietro. La maiuscola non esiste in greco e latino, nel senso che tutto è scritto in caratteri capitali (per l’appunto, maiuscoli), le parole sono divise da puntini più·o·meno·in·questo·modo e leggere non è certo operazione leggera come per noi oggi.
Durante il Medioevo i copisti, anche per giustificare il prezzo dei testi loro commissionati, iniziano a miniare, ossia a creare bellissime decorazioni attorno alle lettere iniziali di pagina. Nessun significato particolare, solo gradevolezza estetica. Ne vengono fuori opere stupende. Maiuscole “ordinarie” sono poste all’inizio di periodo, nei titoli e per designare i nomi propri.
Poi arriva Lutero, con la sua grande spallata all’Occidente. Tutti sono frastornati, le certezze vacillano, e la costruzione o la ricostruzione degli ideali impone certezza, almeno ostentata. Se l’architettura dispone già da qualche secolo del pulpito per sostenere la parola detta, la parola scritta si dota della maiuscola. Iniziano i Tedeschi (e i Danesi, pare), e gli altri vanno loro dietro. E’ il processo di entificazione, per il quale un concetto diventa Ente Concreto, distinto dagli enti generici.
Siamo nel Barocco: regna l’allegoria, l’interpretazione non univoca, non lineare, che per darsi forza deve essere urlata, o quantomeno declamata a gran voce. E la maiuscola è un perfetto mezzo per questo fine. Come ricorda qualcuno, oltre a farsi scrivere i titoli dalla Wertmüller, i letterati barocchi abbondavano in lettere capitali.
Poi la mania ci passa, mentre rimane ai Tedeschi (e ai Danesi). Ma come un fiume carsico, ogni tanto ritorna, fino a oggi.
Lasciamo perdere l’epoca fascista: là è tutto maiuscolo. Granitico, letteralmente. Ma ci dà un’idea di quanto serva il modo in cui si scrive per convincere.
E passi per le minuzie di oggi: “residente in Via Roma”, “stipulato il 12 Febbraio”, “il Vangelo di San Giovanni” (qui c’è il tranellino), “un magnifico Dolcetto”. A me un signore in Francia corresse la scrittura di “Deuxième (o “Seconde”, non ricordo) Guerre Mondiale” asserendo che l’idiotisme non voleva la maiuscola su mondiale. Due su tre, dai. Tra l’altro, capii anche che non mi stava dando dell’idiota, bontà sua.
Ma non se ne può più di Formazione Energetica, di Via dell’Uomo, di Festa dell’Ostara (altrimenti parliamo di Primavera, ma poi il Botticelli mi si adonta), di Casa, Vite, Rinascite, Libertà, Amore e Amori, Unione, Valori, Democrazia, Spirito. Cioè, tutto lecitissimo. Ma.

La netiquette vuole che se si scrive in maiuscolo, è come se si urlasse. Trovo una netta corrispondenza tra l’abuso di maiuscole e la debolezza di quanto si dice. O meglio, la certezza del fatto che se non si spande qualche lettera capitale qua e là il nostro discorso non sia preso in considerazione, chissà perché. Ripenso a una scenetta di Walter Chiari (non sono riuscito a ritrovarla su YouTube) che alza sempre più la voce passando da una telefonata in distretto (senza prefisso) a una in teleselezione, a una in Svizzera per finire con una negli Stati Uniti, condotta urlando. Ugualmente, “alziamo la voce” quando scriviamo cose distanti.
Non credo che molti si sarebbero lamentati se Sorrentino avesse voluto titolare il proprio film La Grande Bellezza, ma non è più bello decidere per nostro conto se ciò di cui tratta è davvero bello, senza imporcelo sin dall’inizio con le maiuscole?
Riprendiamoci le minuscole, ripartiamo dal detto lasciando l’urlato, riprendiamoci il chilometro zero della nostra cultura. Ne abbiamo quanto basta per non dover urlare cose da distante.