10 – carta bianca, vetriolo e melanconia

Tra il xii e il xiii secolo si intensificò notevolmente l’opera dei copisti e degli amanuensi, in contemporanea con la nascita dei primi distretti di lavorazione della carta, che utilizzavano tecniche di produzione importate dall’Islam. Il nuovo supporto di scrittura ebbe sin da subito grande sviluppo, visti gli alti costi della pergamena (la realizzazione di un volume in-folio di 200 pagine richiedeva le pelli di 25 pecore).
La commessa, specie da parte di privati, di un crescente numero di manoscritti implicava la necessità di ripartire il lavoro tra più figure professionali: il bibliotecario, che conduceva la trascrizione dei testi; lo scriptor, deputato alla scrittura e il corrector alla correzione.
Il valore di un libro era particolarmente legato alle miniature (dal latino minium, il colore usato per riquadrare le pagine e per scrivere i titoli e le lettere iniziali dei manoscritti), illustrazioni che impreziosivano notevolmente i codici e richiesero la nascita del ruolo del miniator.

La realizzazione di opere a tiratura sempre più elevata determinò lo sviluppo di varie tecniche di stampa, tra le quali:
– la stampa a intaglio o incisione;
– la stampa a rilievo o topografica;
– la stampa litografica (in epoca più tarda rispetto alle prime due).
Il metodo più diffuso era la xilografia, l’intaglio su legno di figure e caratteri in rilievo. Gli esperti di tale tecnica si servivano di un sottile scalpello con una punta in acciaio (bulino) per incavare le parti bianche rispettando quelle disegnate, in modo che queste ultime definissero in rilievo la figura da ottenere.
In concomitanza con la stampa a caratteri mobili, la xilografia (di origine cinese, viii secolo) ebbe particolare diffusione in Europa dal xiv secolo fino a quando il metallo non sostituì il legno nelle sue principali applicazioni (xvi secolo). Tuttavia aree come quella francese, in cui l’abbondanza di legni duri come il bosso consentiva tirature molto elevate, videro scomparire tale tecnica solo nel xix secolo.
Agli inizi del xvi secolo Albrecht Dürer (secondo altri Tommaso Finiguerra, orefice fiorentino) introdusse un nuovo tipo di incisione su rame, zinco o acciaio: l’acquaforte (dal termine latino per l’acido nitrico). La tecnica consiste nel ricoprire una lamina metallica con uno strato di speciale vernice resinosa, su cui, con una punta di acciaio, si incide il disegno.
Immersa la lamina in acquaforte, una miscela di forti agenti ossidanti, quali l’acido nitrico, quello solforico (detto altresì vetriolo) e quello cloridrico (detto anche muriatico), si ricava una matrice che, inchiostrata e compressa con un torchio, trasferisce alla carta l’inchiostro trattenuto nei solchi realizzati. Le diverse gradazioni cromatiche sono ottenute per “copertura”, per “rimozione” o variando i tempi di esposizione della lamina all’azione ossidante della miscela.
Uno degli esempi più celebri di acquaforte è Melanconia i, eseguita da Dürer nel 1514. Essa simboleggia la sfera intellettuale dominata dal pianeta Saturno, secondo la tradizione astrologica espressione del sentimento della melanconia, che associa al mondo razionale delle scienze quello immaginativo dell’arte.
Sul finire del Medioevo un ulteriore incremento delle stampe da eseguire (principalmente carte da gioco, icone religiose e certificati di indulgenza) rese inadeguate le tecniche fino a quel tempo utilizzate nell’editoria. La dispendiosa e poco produttiva manifattura di matrici in legno mutò nella produzione di tipi in metallo, più semplici da lavorare e più precisi nella stampa. Tale procedimento fu sicuramente utilizzato già a partire dal 1447 in una stamperia attiva a Magonza, e fu probabilmente l’esigenza di riparare le tavolette consunte con la sostituzione di una singola lettera (nella lavorazione lignea) a suggerire l’idea di scrivere un’intera parola con la stessa tecnica.