pascaline, perottine e programmi

Programma101 WCSFP promo from massimo arvat on Vimeo.

46 anni, più o meno. Questo è il tempo che ci divide dal video promozionale dell’Olivetti Programma 101, il primo vero calcolatore personale (si rinuncia volutamente alla dizione di “personal computer”), progettato da Pieg Giorgio Perotto. Il filmato è volutamente flabbergasting, vuole stupire a ogni costo, ma preconizza in modo perfetto ciò che sarebbe accaduto a distanza di quasi mezzo secolo: il calcolatore a bordo piscina, a bordo vasca da bagno, a fianco del letto, azionato da un bambino. Non si sa bene che cosa faccia (è in realtà una macchina da calcolo), ma è propriamente un computer.
Si badi che l’idea di computer, a metà di anni ’60, è associata a immacolate sale macchine, dove uomini in camice bianco operano su grossi armadi, se possibile dotati di nastri rotanti in bella vista. Non è previsto per il comune mortale, sia per il suo timor panico nell’approcciarsi a cotali leviatani elettronici, sia per l’ovvia incapacità di utilizzo, esperire un contatto con quelle macchine.
La promessa di Olivetti è opposta, abbassando la soglia di ingresso nel mondo informatico di moltissimi gradini, e giunge quasi in contemporanea con la formazione dei prodromi della Rete delle Reti, che avrebbe avuto compimento con la delocalizzazione delle capacità di elaborazione dai centri ospitanti i mainframe ai calcolatori personali che ben conosciamo.
Anche la profezia più fosca presente nel filmato, quella del ragazzo che parla dei sistemi informatici come attuazione delle prospettive orwelliane di 1984 o dell’ovvio big brother, ossia il controllo di tutti i flussi d’informazione da parte di entità centralizzate, trovi qualche buon fondamento nella situazione all’inizio del secondo decennio del xx secolo.
A differenza di ARPANET, che non dovendo subito confrontarsi con la propria valorizzazione economica su scala diffusa, potè svilupparsi con tutta calma, estendendosi gradatamente e contemporaneamente arricchendosi di funzionalità, specifiche e protocolli, il Programma 101 (da notare come fosse stato presentato senza variazioni di nome sui mercati anglofoni) dovette, per la propria stessa susssitenza, passare al vaglio del mercato, risultando tra l’altro vincente sin da subito. Furono l’assenza di ottiche di lungo periodo a confinarlo in una nicchia che solamente un decennio dopo, con la comparsa del P6040 (dotato di processore Intel 8080), e del P6060 (con processore ancora in tecnologia TTL, ossia transistor transistor logic, ma dotato di stampante grafica e floppy disk), vide Olivetti ripresentarsi sul mercato con innovazioni di rilievo.

mettete l’uranio nei vostri computer

Come si diceva un tempo, “le agenzie battono” in questi giorni la notizia relativa alla realizzazione di una nuova tipologia di memoria di massa. Le dimensioni del modulo base di questa memoria (in realtà si tratta di un micro-magnete, definito come single molecule magnet o SMM) fanno impallidire le pur ridottissime dimensioni dei dipoli che la perpendicular magnetic recording (PMR), la tecnologia degli attuali hard disk, utilizza.
All’Università di Nottingham è stata realizzata una molecola che include due atomi di uranio impoverito e una molecola ponte di toluene. Tale molecola, mantenuta al di sotto di una temperatura definita “di blocco” non lontana dallo zero assoluto, sarebbe in grado di mantenere uno stato magnetico assegnato, essendo l’uranio dotato di proprietà paramagnetiche proprio in quel piccolo intervallo.
Rispetto ai tubi a vuoto, primi elementi elettronici utilizzati nella realizzazione dei calcolatori, poiché primi elementi in grado di modificare il proprio comportamento elettrico in funzione della corrente che li attraversa, si tratterebbe di una riduzione di dimensioni lineari di circa un miliardo di volte.
Anche considerando i più piccoli transistor attualmente in commercio, le loro dimensioni (una cinquantina di nanometri) sono circa 500 volte maggiori rispetto agli SMM.
Oltre ai giustificati dubbi sulla potenziale pericolosità dell’uso di un materiale radioattivo, tutti i pezzi pubblicati si affrettano a ricordare le difficoltà tecniche insite nella realizzazione tecnica di dispositivi di archiviazione di dati dotati di apparati di lettura così piccoli. Dubbi leciti, se si pensa che la lettura può in questi ambiti essere influente sul dato medesimo, eventualmente modificandolo. Ma a metà anni ’60 nessuno avrebbe mai pensato ai circuiti integrati e alle dimensioni che avrebbe raggiunto un transistor anche solamente ai tempi della prima VLSI (Very Large Scale of Integration); e per lo stesso transistor, una quindicina di anni prima, nessuno avrebbe dato un dollaro. Fortunatamente, qualcuno diede qualche yen.

pianeti e rivoluzioni

La copertina di Sociologia della creatività scientifica, saggio di Derek de Solla Price pubblicato da Bompiani nel 1973 in seconda edizione (la prima è del 1967) all’interno della collana “I satelliti” presenta cerchi neri su fondo bianco; uno è enormemente più grande degli altri, e contiene il titolo; gli altri, proprio come satelliti, sembrano orbitare confusi attorno a un sole centrale e centrato nella pagina.
L’opera sembra ricordare uno di quei quadri post-sessantottini descritti ne Il pendolo di Foucault:

All’inizio degli anni sessanta produceva quadri molto noiosi, tessiture minute di neri e di grigi, molto geometriche, un poco optical, che facevano ballare gli occhi. Erano intitolati Composizione 15, Parallasse 17, Euclide X, Ce n’est qu’un debut, Molotov, Cento fiori.

Chissà quanto la copertina era stata scelta in funzione del contenuto del testo.
Resta il fatto che proprio di grandi e piccoli sistemi parla de Solla Price, a cui si deve il termine big science, categoria nela quale sono inclusi tutti i grandi esperimenti per i quali l’esborso monetario è al di sopra di una certa soglia.
L’analisi del sociologo inglese si inserisce nel filone critico della tecnologia, per il quale punto fondamentale era lo scollamento verificatosi tra dominio scientifico/tecnologico e sfera sociale, dal momento in cui gli esperimenti avevano raggiunto dimensioni non più paragonabili alle sfere d’azione degli individui che li svolgevano, quindi non più funzionali per quelli e in definitiva più difficilmente controllabili, se non con una potente organizzazione centrale.
In sintesi, de Solla Price e i suoi colleghi (tra cui Carson e Snow, assertore delle “due culture”) propugnavano un ritorno a una scala più “umanizzata”, controllabile dalle conoscenze e dalle forze distrettuali, oltre che maggiormente sostenibile da un punto di vista ecologico.
L’analisi, come ovvio, era calata in un mondo dove la realtà industriale produttiva era ancora il fattore trainante, ma è validissima ancora nella situazione odierna, dove una contrapposizione nucleare+centralizzato/solare+delocalizzato non dovrebbe nemmeno esistere nelle menti di chi concepisce un piano energetico sensato. Gli esempi sono molti, e pare che una cecità selettiva colpisca le visioni di molti governanti.

streamline strikes back

Rieccola, l’estetica streamline. Dopo le prime apparizioni a inizio secolo, l’uso ben visibile nel corso degli anni ’30 e la scorpacciata degli anni ’50 del xx secolo, quando la sua moda non contagiò il solo mondo delle automobili, arrivando persino a connotare in modo inequivocabile anche elettrodomestici “insospettabili” come aspirapolvere e ferri da stiro, questa cifra stilistica riemerge di tanto in tanto come un fiume carsico, e la sua visibilità è tanto maggiore quanto meno necessaria è l’aerodinamicità dell’oggetto che ne viene condizionato.
Se infatti le “pinne da squalo” delle cabriolet e berline americane avevano una pur lontana giustificazione pratica, permettendo a quelle automobili una migliore penetrazione nell’aria, se le forme affusolate dei grattacieli (si pensi al Chrysler Building) trovavano un’antenata illustre come la Torre Eiffel, che dall’aerodinamica dipende per la propria esistenza, così non era per innocui oggetti casalinghi, come i ferri da stiro, che tuttavia subirono redesign in virtù dell’estetica delle linee filanti. Il ferro da stiro Zenit (anni ’50) ne è un esempio. L’idea era che una forma aerodinamica, non solo della parte che compiva lo scivolamento, ma pure del corpo e del manico, promettesse una maggiore facilità d’uso, un aumento della velocità di lavoro.
Parla bene di queste concezioni Fabrizio Carli, nel suo Elettrodomestici spaziali, edito da Castelvecchi (2000). Analizzando gli elettrodomestici nel xx secolo Carli porta avanti una tesi che può essere ridotta a questi termini: a quale estetica si possono rifare degli oggetti nuovi per essere “vestiti”? Ovvio, a quella più di moda in quel periodo. Con la fantascienza in piena crescita, la scelta era quasi obbligata. E quindi dischi (spaziali), forme allungate, filanti, aerodinamiche, veloci, in una sorta di futurismo cristallizzato negli oggetti di uso quotidiano.

A volte ritornano, si diceva. Entra a pieno titolo nella categoria degli elettrodomestici spaziali il FRITZ!Box Fon WLAN 7390. Come aumentare la velocità di connessione a Internet? Come migliorare la qualità delle chiamate VoIP? Con un buon hardware, certo, ma soprattutto con un moder/router/firewall/chipiùnehapiunemetta che solchi le autostrade telematiche con la minore resistenza aerodinamica possibile. Il design, con tutta probabilità in modo voluto, riprende proprio le linee delle berline americane degli anni ’50, con qualche contaminazione dalla fantascienza degli anni ’80.
In fondo, non nascondiamoci dietro un dito, si è sempre parlato di “autostrade telematiche”.