06 – tutte le strade portano a Roma

Alla base delle strade romane erano fondazioni eseguite a mano, poi degli strati impermeabili che preservavano dall’acqua. A questi era sovrapposto un nucleus, un sostegno per il pavimento vero e proprio.
Nella costruzione di strade si usavano rulli in pietra descritti anche da Virgilio.
Gli ingegneri romani tentavano sempre di adoperare materiali locali, in modo da avere le cave in pietra in prossimità della strada da costruire.
L’uso della malta di calce (calce o pozzolana come legante, sabbia e acqua) fu importato dall’edilizia ellenica verso il 300 a.C. Con pietrisco, cocci di terracotta e mattoni frantumati preparavano un fondo che poteva penetrare tra gli interstizi delle pietre degli strati di fondazione per dare maggiore solidità. Si usava anche il fondo di ghiaia, con il risultato di una strada in calcestruzzo (composto di cemento come legante, un inerte come la ghiaia e acqua).

Il procedimento tecnico usato dai Romani per organizzare i terreni agricoli si chiama “centuriazione” ed è un metodo valido per un territorio pianeggiante e ricco di acqua come quello della valle Padana: boscaglie e paludi vengono eliminate per guadagnare fertili terreni agricoli, per assegnare ai cittadini delle colonie; l’area coltivabile viene non solo parcellata (suddivisa) ma anche attrezzata con strade, sentieri e una rete di canali, di scoli e di fossi.
La suddivisione del territorio e l’assegnazione delle terre ai coloni si realizzavano tracciando sul terreno un reticolo ortogonale di maglie quadrate (centurie) di circa settecento metri per lato, con una superficie di circa 50 ettari. Le linee divisorie formanti la centuria, prendono il nome di “cardini” e “decumani” (i primi nella direzione sud-nord e gli altri secondo quella est-ovest), più genericamente chiamati limites. Gli assi principali tracciati per primi dagli agrimensori si chiamano Decumano e Cardo Maximum. Lo strumento usato per questa operazione era la groma, sorta di squadra con piombi il cui uso prevedeva di traguardare attraverso i fili condotti dai piombi.
Terminata la suddivisione del suolo, agli incroci del limites erano posti dei cippi in pietra chiamati “termini” cioè pietre di confine sulle quali erano incise le coordinate della centuriazione. I confini erano considerati sacri e le pietre di confine onorate come divinità.
La forma dell’appezzamento era quadrata, ed era funzionale all’uso, da parte dei legionari in pace, dell’aratro semplice o a chiodo, il cui funzionamento è molto diverso da quello dell’aratro pesante, per il quale è sufficiente una sola passata. L’aratro a chiodo era trascinato una prima volta (vista la leggerezza dello strumento, l’operazione poteva essere compiuta senza l’ausilio di animali) con delle passate parallele a due dei lati. Era così tracciato un piccolo solco. Avveniva poi la seconda passata, le cui linee erano perpendicolari a quelle della prima, e consentivano l’innalzamento e il ribaltamento delle zolle di terra, risultanti in un’aratura di qualità sufficiente.

La noria era, insieme alla vite di Archimede, uno strumento utilizzato dai Romani per i lavori di drenaggio. Esse, insieme con sistemi di pompaggio in bronzo, sono state descritte già da Erone e Vitruvio, ed erano ancora in uso nel xix secolo. Tuttavia, il maggiore impegno nella tecnologia idrica (e i migliori risultati ottenuti) dei Romani si concentrò sui sistemi di mulini (come nel caso di quelli di Barbegal, presso Arles, in Francia).
La funzione dei mulini era di produrre macinato sia per esigenze locali, sia per il sostentamento della capitale: all’apogeo dell’Impero romano, infatti, ogni anno entrava in Roma almeno mezzo milione di tonnellate di frumento, per sfamare il milione di persone che nel i e ii secolo d.C. vi abitava.

Anche la tecnologia militare vide qualche realizzazione tecnica di rilievo: l’onagro e la cheiroballista (o chiroballista) potevano scagliare rispettivamente massi di qualche centinaio di chili a centinaia di metri di distanza e grandi frecce con notevole potenza.

Infine, fu messo a punto un sistema di comunicazione ottico che si rivelò di una certa utilità: un sistema di due gruppi di 5 aste con bandiera permetteva la trasmissione di alcune fondamentali comunicazioni. Collocato in punti strategici, il sistema permetteva una veloce comunicazione alle truppe.

Galline, Avatar e resistenze, o della stereoscopia e del 3D / 1

Posto che non hanno tasche dove riporre del denaro, e tanto meno capacità prensili per portare con sé un portafoglio con il contante per pagare il biglietto del cinema, per le galline non varrebbe la pena vedere Avatar, l’osannato film di animazione le cui caratteristiche 3D sembrano porlo come pietra di paragone futura per le realizzazioni di questo tipo.
La stereoscopia si basa infatti sulla vista binoculare, che contempla una disposizione frontale degli occhi, ai quali in ogni momento arriva (quasi) la medesima immagine.
La vista binoculare è utile soprattutto per la percezione della profondità, grazie al triangolo i cui lati sono costituiti dalle due linee che uniscono gli occhi con l’oggetto osservato e dalla linea di congiunzione tra i due occhi.

Seguendo un simile principio, i Romani usavano la triangolazione per misurare distanze non note: per calcolare, ad esempio, la larghezza di un fiume, utilizzavano uno strumento detto groma, che permetteva la costruzione di triangoli rettangoli simili (ossia con angoli a uno a uno uguali). Note le lunghezze dei lati di uno dei due triangoli (quello sulla terraferma), si potevano conoscere quelle ignote del triangolo i cui lati non erano completamente percorribile. Per inciso, con la groma si possono solamente misurare gli angoli retti, o tracciare linee rette traguardandovi attraverso.
La conoscenza di tale dispositivo è fondamentale, insieme con l’aratro, per comprendere le modalità dell’antropizzazione del paesaggio compiuta dai Romani.

Tornando alla visione, il cervello degli animali (uomo compreso) con vista binoculare compie costantemente triangolazioni, che consentono la percezione delle distanze e dunque della profondità dello spazio circostante.
Le galline sopperiscono alla loro mancanza anatomica ruotando velocemente la testa per “confrontare” la visione di un occhio con quella dell’altro, ugualmente per stimare le distanze e le profondità.
La visione binoculare è stata utile ai predatori, che grazie a essa possono condurre inseguimenti stimando con ottima precisione la distanza che li separa dalla preda e le variazioni di quella. I rapaci, dal canto loro, compensano l’impossibilità della vista binoculare con diverse caratteristiche e dimensioni del sistema oculare.
Questa caratteristica della visione di alcune specie animali fu scoperta da Euclide, alla fine del iii secolo a.C., ma come in altre occasioni le scoperte scientifiche dei Greci non sfociarono in ulteriori analisi, sistematizzazioni né ricadute tecnologiche.
Non si danno particolari avanzamenti nella consocenza e nell’interpretazione del fenomeno della stereoscopia per lungo tempo; Leonardo da Vinci studiò la materia, ottenendo secondo alcuni (si veda un esempio in http://stereoscopicgioconda.blogspot.com/) una tecnica di tipo stereografico. Altri, invece (James H. Beck, Leonardo’s rules of painting, Oxford : Phaidon Press, 1979) ritengono che Leonardo abbia concluso per l’impossibilità da parte della pittura di rappresentare in modo realistico le profondità.
Nel xvi secolo Giovan Battista della Porta (1535-1615) è accreditato delle prime realizzazioni di disegni stereografici; il lemma “stéréoscopique” si deve al padre gesuita François d’Aiguillon, che nella sua opera Opticorum libri sex philosophis juxta ac mathematicis utiles , che oltre alla stereografia trattava anche delle proiezioni ortografiche, basandosi sugli studi, tra gli altri, di Christiaan Huygens.

Sarà il xix secolo a mettere maggiormente in pratica le conoscenze legate alla stereoscopia, preludendo all’utilizzo di questa a supporto della tecnica cinematografica.

(continua)