un caffè corretto

caffè

(risposta al post di Paolo Borzacchiello del 9 aprile 2017, che riporto: “Milano, Stazione Centrale. Chiedo un caffè e non me lo hanno fatto: solo servizio al tavolo. Si sono rifiutati di farmi un caffè. Sono andato altrove. A parte il fatto che mai più in vita andrò in questo posto, chiedo lumi: 1) come strategia di marketing, che ne pensate? 2) è legale rifiutarsi di fare un caffè in un locale aperto al pubblico? Panino Giusto: che ne pensate? È legale? Soprattutto: è giusto?”)

Lascio da parte il punto di vista legale a chi ha le conoscenze per trattarlo.
Venendo invece alla “esperienza dell’utente” in sé, mi permetto di segnalare che quanto più si va verso catene di distribuzione di tipo industriale (il che significa, anche un banale franchising), è molto difficile, per non dire quasi impossibile, pretendere cambiamenti rispetto alle strutture di prodotto ufficiali. Avete mai provato a chiedere una Coca-Cola senza ghiaccio in un fast food? Che ci vuole a toglierlo, lasciando inalterata la quantità di liquido? Se il sistema fast food ha avuto una crisi, non è certo dovuta alla rigidità dei menu.
Nella mia esperienza entrano anche diversi episodi americani, tra cui quello presso un “deli” – non di catena, si badi – sulla Settima Avenue newyorchese. Volevo un uovo con bacon per colazione, ma il listino proponeva solo un piatto con tre uova e relativo bacon. Ho proposto di pagare il prezzo pieno pur di vedermi nel piatto un uovo solo. Chi credete che l’abbia spuntata? Per quanto ne so, quel posto va a gonfie vele.
Se da un punto di vista umano, poi, il caso è comprensibile (di nuovo, uno si chiede, che ci vorrà a posare la tazzina al banco invece che al tavolino?), in una logica di prodotto industriale, o quasi tale, le deviazioni rispetto allo standard costano, in Italia o altrove, e non è redditizio nemmeno prevederle, pur a prezzo maggiorato. Sarebbe come chiedere alla Volkswagen una Golf viola a pois rosa. Basterebbe pagarla, no? Volkswagen non ve la fornirà a nessun prezzo, a meno, forse, che non siate veramente un pezzo grosso. Di nuovo, qualcuno si lagna con VW perché ha solo dodici gradazioni di colore? E il listino di accessori VW/Audi è incomparabilmente più grande di quello Toyota, tanto per dire. Ce la vogliamo prendere perché i signori giapponesi ci impongono anche la selleria in pelle se vogliamo il climatizzatore automatico? O lodiamo la loro logica lean? Delle due, una, signori.
E’ che noi italiani teniamo al caffè, perché il caffè è una coccola, e vederlo trattare come un oggetto commerciale ci intristisce. Per questo, personalmente non vado da Starbucks, e per questo apprezzo l’incredibile foresta pluviale di varietà di caffè (parlo dei modi di servirlo) di cui disponiamo in Italia, che ho presuntuosamente tentato di elencare qui.
Per tutto il resto, è la globalizzazione, bellezza!

La Volkswagen, il barone di Münchausen e i mocassini

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Giudicare l’importanza e le ricadute di lunga portata di eventi appena accaduti non è per nulla facile. Il caso Volkswagen è sulla bocca di tutti, ma sapere se tra un anno la casa del Maggiolone ricomincerà dalla produzione di macinapepe, o se la quota delle auto ibride sarà al 20%, o ancora se Angela Merkel girerà il mondo come conferenziera al pari di un qualsiasi Bill Clinton è compito arduo.

Qualche pensiero sparso, oggi, potrà però suonare utile tra qualche tempo, quando la polvere dell’esplosione si sarà depositata.

La Volkswagen è nell’occhio del ciclone, e si lecca preventivamente le ferite che le saranno inferte da EPA, EEA (l’Agenzia Europea dell’Ambiente), class actions di qua e di là dell’oceano, perdita di fiducia da parte della clientela e necessari richiami delle vetture non conformi. Ragion per cui stanza sei miliardi e mezzo di euro, curiosamente la stessa somma stanziata dal governo tedesco in previsione dell’arrivo dei profughi siriani. Chissà che la prossima settimana il nuovo AD Volkswagen non dichiari in conferenza: “Siamo al collasso, non possiamo richiamare le vetture non conformi”.

Proprio l’EPA offre in prima pagina del proprio portale un articolo, datato 18 settembre, il cui titolo rende ridicolo l’uderstatement di Stanley alla vista del dottor Livingstone: Carmaker allegedly used software that circumvents emissions testing for certain air pollutants. All’interno dell’articolo, almeno, appare il nome dell’imputato. Sul portale EEA, invece, si scorre una sequela di articoli che avrebbero destato attenzione nel 1973, ma non molto dopo.

La patata bollente non la vuole proprio nessuno: il governo tedesco, per bocca del suo ministro dell’Ambiente Alexander Dobrindt, fa sapere di essere a conoscenza di un’azienda produttrice di auto con sede a Wolfsburg, di aver commissionato test sulle emissioni di inquinanti da parte degli autoveicoli, ma poco di più. Non vi è conferma, invece, sulla sua possibile affermazione “la Bassa Sassonia, per quanto ricordo, era pure in DDR”.

La BMW, prima accusata e poi assolta da “Autobild”, perde prima dieci punti in Borsa per poi riprenderli con la smentita. La Mercedes, per parte sua, nega risolutamente di aver mai prodotto automobili. Sergio Marchionne gongola, non avendo il problema di vendite Fiat negli Stati Uniti.

In Oriente, alla Toyota è stato acceso un falò con carburante diesel, ammirato dai dirigenti della Casa delle tre ellissi che brindavano con liquido di batteria.

L’EPA non ha meriti nella scoperta del trucco VW. Lo scandalo parte dalle analisi effettuate dall’International Council on Clean Transportation (ICCT), l’organizzazione nonprofit che si dedica a fornire ricerche ed analisi indipendenti in merito a indicatori ambientali, con particolare attenzione ai mezzi di trasporto. Si legge sul sito che l’organizzazione è finanziata dai proprietari dell’HP. Note di alcune agenzie tedesche comunicano di come l’amministratore delegato Martin Winterkorn, nel suo ultimo giorno di lavoro a Wolfsburg, sia stato visto dilettarsi al tiro a volo. Le stesse agenzie riferiscono di come i piattelli assomigliassero a piccole stampanti a getto.

In questo panorama ancora piuttosto liquido, l’ultimo dubbio è sulla strategia futura della Volkswagen: sapendo di non poter contare su alcun aiuto esterno, farà come il granchio nel secchio, che tira giù i suoi simili che ne vogliono uscire, o come il barone di Münchausen (o Münchhausen), che eseguì mirabilmente il bootstrapping, ossia il cavarsi dal pantano tirandosi su dai propri stessi stivali (o dal codino, come in figura)? Alcuni si fregano le mani in ogni caso, altri sono in mocassini.

BaronMunch