21 – le teorie di Schumpeter

Joseph Schumpeter modificò questa visione. L’invenzione non è per tutti, non tutti gli imprenditori riescono a vedere l’innovazione migliore in quel dato momento, quindi l’innovazione crea un extra-profitto.
Si introduceva inoltre la distinzione tra innovazione, invenzione e diffusione dell’innovazione. Per semplicità, si può assumere che l’innovazione sia un’invenzione acquisita dal mercato; se ciò non si verifica, l’invenzione si ferma al suo aspetto di nuovo trovato che non ha nessuna finalità sul mercato in quanto non se ne riscontra l’utilità.
Schumpeter introdusse anche una classificazione delle modalità in cui l’innovazione si diffonde all’interno dell’industria. Ne elenca cinque: nuovo prodotto, nuovo processo, nuovo mercato e nuove materie prime; oppure riorganizzando la produzione. Esempio in questo senso di riorganizzazione della produzione è quello della Fiat, che passò dallo stabilimento e dallo schema produttivo ottocentesco di corso Dante, dove è l’isola di produzione a costituire l’elemento fondante dello schema organizzativo della produzione, a quello del Lingotto, nel quale la concezione tayloristica prese piede e fu implementata in modo quasi paradigmatico.
Il filone neo-schumpeteriano cambiò ancora una volta le carte in gioco: il nesso non era più quello tra innovazione e profitto; al contrario, era il profitto a determinare le condizioni per l’azienda tali da consentirle di investire in ricerca e sviluppo, consentendole eventualmente di ottenere un altro extra-profitto. Al contrario, nei momenti in cui le aziende languono non è semplice per queste pensare a investimenti di medio o lungo periodo, quali quelli di ricerca e sviluppo.
Il successivo filone neo-tecnologico mise al centro della realtà produttiva la tecnologia. Prima infatti questa era sempre stata considerata marginalmente; ora invece diventa il driver; l’insorgenza di nuove tecniche danno la possibilità di avanzamento.
Si negava altresì in modo sempre più diffuso l’ipotesi neoclassica di indifferenza delle imprese nei confronti del cambiamento tecnologico; in altre parole, l’assunzione sempre più comune teneva conto di disparità nella visione delle nuove tecnologie, nella loro valutazione e adozione.
Vale la pena di svolgere una considerazione di portata generale. Quanto più una tecnologia è matura, tanto maggiore è la possibilità che l’innovazione sia introdotta attraverso una riorganizzazione aziendale: sempre per rimanere sull’esempio della Fiat, a un cambiamento epocale, legato sì all’organizzazione ma anche al processo produttivo, quale lo spostamento dagli stabilimenti di corso Dante a quello del Lingotto, succedette lo spostamento all’impianto di Mirafiori, dove la riorganizzazione dell’impresa fu l’azione di maggiore profondità. Il modello Toyota ne è un ulteriore esempio: si tratta di un metodo tecnologico molto organizzato, sottoposto a controllo, in cui ogni “granello” è apportatore di innovazione e viene considerato.

La figura dell’inventore nell’antichità non godette di ottima considerazione, soprattutto presso i Greci, che consideravano gretto colui che modificasse lo stato di natura delle cose. Occorrerà attendere quasi la fine del Medioevo perché questa concezione sia completamente rimossa.
Giorgio Vasari, con le sue Vite (Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, 1550), si fece portavoce di quella che si sarebbe poi chiamata visione trascendentalista, secondo cui esiste il genio individuale e l’invenzione è atto del singolo. Ci sono cioè persone più capaci, che hanno più abilità, che hanno quel sensus mechanicus, che consente loro di vedere oltre quando si approccia un problema meccanico.
Un’altra teoria dell’invenzione è quella sociale. Secondo questa c’è sì il singolo, ma la sua azione dipende dall’ambiente in cui si trova, cioè viene riconosciuto un valore sociale a ciò che sta intorno, mentre l’inventore è visto come prodotto della società.
Una posizione intermedia ha come presupposto teorico la scuola psicologica della Gestalt, secondo cui esiste una componente sociale nell’invenzione, ma anche una componente intuitiva, e l’intuito non è una caratteristica del singolo, ma di tutti, sebbene stimolato diversamente in diverse condizioni. Non è neppure una risposta meccanica ad un bisogno, che si ritiene debba accadere necessariamente.

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