08 – l’ora dei naviganti

All’inizio del xviii secolo si fece sempre più pressante il problema della determinazione della longitudine in mare aperto. Tale problema si percepì maggiormente nella navigazione transoceanica, dove uno scarto di pochi gradi poteva avere conseguenze disastrose sull’esito geografico del viaggio.
La latitudine è determinabile da osservazioni astronomiche, mentre per la longitudine è necessario conoscere l’ora esatta locale e quella di un meridiano fondamentale. Gli orologi del xviii secolo erano messi fuori uso dalle oscillazione delle navi per cui il governo inglese promosse lo studio di sistemi alternativi.

Nel suo Longitudine, Dava Sobel chiarisce con estrema capacità di sintesi il nocciolo del problema:

“Ogni marinaio un po’ avveduto può misurare la latitudine dalla lunghezza del giorno, dall’altezza del sole, dalle note stelle di riferimento sopra l’orizzonte. Cristoforo Colombo seguì una rotta quasi rettilinea attraverso l’Atlantico quando « salpò il parallelo » nel suo viaggio del 1492; e la tecnica l’avrebbe senza dubbio portato alle Indie se non si fossero messi di mezzo gli americani.
La misura dei meridiani di longitudine, invece, è influenzata dall’ora. Per calcolare la longitudine in alto mare bisogna sapere non soltanto che ora è a bordo della nave in un dato momento, ma anche che ora è, in quello stesso istante, nel porto di partenza o in un altro luogo di cui si conosca la longitudine. Le ore segnate dai due orologi rendono possibile al navigante la trasformazione della differenza oraria in distanza geografica. Poiché la Terra impiega ventiquattro ore per compiere un’intera rotazione di trecentosessanta gradi, un’ora equivale a un ventiquattresimo di giro, ovvero a quindici gradi. Quindi la differenza di un’ora tra la posizione della nave e il punto di partenza indica un avanzamento di quindici gradi di longitudine verso oriente o occidente. […] Quegli stessi quindici gradi corrispondono anche a una certa distanza percorsa. All’Equatore, dove la circonferenza della Terra è massima, quindici gradi vogliono dire mille miglia. A nord e a sud di tale linea, il valore di ciascun grado, misurato in miglia, diminuisce. Un grado di longitudine equivale a quattro minuti in tutto il mondo, ma in termini di distanza un grado si contrae dalle sessantotto miglia all’Equatore sino allo zero virtuale dei poli.”

Nel 1714 il governo britannico istituì un premio in denaro (20000 sterline) per chi avesse trovato un metodo abbastanza preciso e adatto per l’uso a bordo di una nave, per determinare la longitudine locale, o meglio per la determinazione delle coordinate locali nella navigazione in mare aperto.
Tra le proposte presentate al concorso, molte furono basate su tecniche astronomiche, ma ci furono anche quelle basate su considerazioni parascientifiche o pseudoscientifiche: i cani feriti bendati e posti sulle navi, e l’uso dell’unguentum armarium come mezzo per l’azione a distanza; si ricordano in questo contesto le opinioni illustri di Champlain e di Swift, che affermarono l’impossibilità per l’uomo di trovare una soluzione efficace per il problema della longitudine.

L’orologiaio John Harrison risolse il problema costruendo nel corso di quasi trent’anni di lavoro una serie di orologi meccanici adatti allo scopo. Presentò nel 1735 il suo primo cronometro di precisione, realizzando altri due prototipi nel 1739 e 1749, finché non giunse al modello definitivo nel 1759, sperimentato in due traversate atlantiche. Il cronometro fu anche usato da James Cook per il suo viaggio esplorativo nell’Oceano Pacifico meridionale.
L’H4 (“Harrison 4”) fu il modello definitivo presentato alla commissione; questa però non ritenne del tutto affidabile un sistema che non tenesse conto dell’osservazione astronomica ed accordò ad Harrison solo una parte del premio in palio, rimettendo la concessione della seconda metà del premio una volta che Harrison, al tempo quasi settantenne, avesse completato due ulteriori esemplari dell’H4.

08 – pendoli, coni e molle

Gli orologi meccanici videro un primo deciso aumento della precisione quando si potette compiere in modo adeguato la regolazione, a mezzo dei meccanismi di scappamento che permettono il fluire di un’energia in modo controllato. Uno di tali dispositivi è lo scappamento a foliot. Lo scappamento a foliot è anche descritto nell’Encyclopèdie di Diderot et D’Alembert: esso consiste in un volano dotato di due bracci con pesi che, girando, permette al suo perno di bloccare a intervalli regolari una ruota a dente di sega. Dopo l’avviamento manuale del sistema, s’innesca un feedback; i denti della ruota trasmettono al volano la forza per continuare a muoversi, superando gli attriti.
L’evento che però segnò in modo netto l’ingresso nel cosiddetto “universo della precisione” fu la scoperta delle potenzialità del pendolo da parte di Galileo Galilei. Secondo un racconto quasi leggendario, Galilei osservò le oscillazioni di un lampadario appeso al colmo della navata centrale del duomo di Pisa, da cui ricavò per induzione la legge alla base del funzionamento di questa macchina così semplice eppure così importante nell’età moderna: una massa appesa ad un filo virtualmente inestensibile, messa in moto, continua ad oscillare con periodo costante (il celebre isocronismo del pendolo).
Il periodo di oscillazione del pendolo non dipende dalla massa, ma solo dalla lunghezza del filo (presupposta l’accelerazione di gravità g costante). Applicando tale concetto alla pratica meccanica, già alla fine del xvii secolo comparve negli orologi il nuovo regolatore, con una sensibile diminuzione di errore nella misurazione del tempo. Di questa precisione si servì a piene mani la Rivoluzione Industriale (il cui inizio convenzionale è fissato nel 1750 in Inghilterra), per la necessità di scandire i turni dei lavoratori. Lo storico dell’economia David Landes arrivò persino a definire l’orologio come vera macchina rappresentativa dell’età industriale in luogo della maggiormente considerata macchina a vapore.

Ancora prima del pendolo, agli albori dell’età moderna, iniziò pure un processo di miniaturizzazione, che portò agli orologi da polso e tascabili, e che avvenne soprattutto al perfezionamento delle molle a spirale. La molla immagazzina energia e la rilascia gradatamente per mezzo di uno scappamento. Poiché però la forza rilasciata diminuisce in ragione in prima approssimazione lineare, affinché il momento angolare erogato sia costante, alla molla è accoppiato un elemento detto conoide, il cui profilo è simile a quello di un braccio iperbolico: in questo modo, in ogni momento il prodotto della forza rilasciata per il braccio della forza, pari proprio al momento angolare, può essere considerato come costante. Di conseguenza l’orologio “cammina” in modo uniforme.

La tecnologia e la cultura relative alle macchine del tempo creano una sorta di casta, una corporazione, formata da individui di estrazione medio-alta, che si trasmettono il sapere e la professionalità in particolare per via genealogica, o comunque secondo le regole ben definite proprie di una corporazione. Come ricorda Carlo M. Cipolla nel suo Le macchine del tempo, “di trentatré orologiai operanti a Lione tra il 1550 e il 1650, tredici erano figli di orologiai, otto di orefici, meccanici, insegnanti e sarti”. La provenienza da ambiti nei quali la precisione aveva un qualche considerevole peso era titolo preferenziale.
Si consolidarono centri europei di maggiore importanza nel campo dell’orologeria: Parigi, Lione, Ginevra, Blois, Tolosa, Londra, L’Aia erano i più celebri. Si trattava di città mercantili, con forte vocazione commerciale, spesso dotate di tradizione nel campo della lavorazione dei metalli.

Il settore dell’orologeria era estremamente dinamico, sia dal lato del prodotto sia da quello della circolazione del sapere tra gli esperti: basti dire che, come spiega sempre Cipolla (Le macchine del tempo), gli orologi costruiti in Inghilterra alla fine del xvi secolo erano riproduzioni di modelli francesi e tedeschi. L’imitazione è però utile: furono gli inglesi a inventare la suoneria notturna a ripetizione o comandata. Dal canto loro, gli orologiai svizzeri già alla fine del xvii secolo producevano pezzi senza “firma”, utilizzabili in altri paesi come base per i prodotti finiti.
A testimonianza dell’ampiezza del mercato e della specializzazione e diversificazione tra le diverse fasi della produzione, a Ginevra nacquero corporazioni come quella dei montatori d’orologio (1698) e dei cesellatori (1716).

07 – il tempo di tutti

Sin dall’epoca di Dante era ritenuto un prestigio, da parte delle cattedrali e delle sedi vescovili, possedere orologi meccanici. Gli orologi era pezzi spesso molto costosi, per cui richiedevano una certa cura e manutenzione; di conseguenza divenne necessario l’assunzione di una persona addetta alla custodia e alla gestione del congegno. Quest’attività si perfezionò nel tempo fino a rendere tale mansione una vera e propria professione.

E’ con tutta probabilità la Commedia dantesca fornire le prime descrizioni dell’orologio meccanico. Ciò significava che gli orologi avevano acquistato già una certa visibilità al di fuori della stretta cerchia dei tecnici. Dante sfrutta l’orologio per condurre analogie sui movimenti rotatori, ripetitivi e regolari. Ecco gli estratti dai canti x (vv. 139-148) e xxiv (vv. 13-18).

Indi, come orologio che ne chiami
ne l’ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l’ami,
che l’una parte e l’altra tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
che ‘l ben disposto spirto d’amor turge;
così vid’ ïo la gloriosa rota
muoversi e render voce a voce in tempra
e in dolcezza ch’esser non pò nota
se non colà dove gioir s’insempra.

In questo passo Dante parla di un orologio che scandisce l’ora delle lodi, perfettamente inserito, quindi, nella divisione religiosa della giornata, e che per parte tira e per parte spinge al fine di produrre un tintinnio. Si tratta per certo di uno svegliarino monastico, nel quale al raggiungimento di una certa ora, l’asse di un martelletto era connesso in qualche modo all’asse dello scappamento, producendosi così in percussioni alternate di una campanella.
Nel passo che segue, invece, si descrivono le diverse velocità delle lancette indicanti ore, minuti e secondi.

E come cerchi in tempra d’orïuoli
si giran sì, che ‘l primo a chi pon mente
quïeto pare, e l’ultimo che voli;
così quelle carole, differente-
mente danzando, de la sua ricchezza
mi facieno stimar, veloci e lente.

Esempio di orologio monumentale è quello della cattedrale di Strasburgo, installato nel 1350. Ecco come il sito www.strasburgo.eu descrive i più caratteristici movimenti dell’orologio:

“L’Orologio affascina soprattutto per il gioco dei meccanismi che, ogni giorno, alle ore 12.30, si mettono in moto contemporaneamente. Il primo quarto d’ora è scoccato da un putto alato, il secondo da un fanciullo adolescente, il terzo da un adulto e il quarto da un vecchio a simboleggiare le quattro età della vita. Tutti sfilano davanti alla morte che ha in una mano una falce e nell’altra un battaglio col quale batte le ore mentre le età, dopo i rintocchi dell’ora un’altra figura di putto alato rovescia la clessidra che tiene in mano.
Allo scoccare del mezzogiorno le statue rappresentanti gli apostoli sfilano davanti a Gesù che, passato l’ultimo apostolo, benedice i visitatori; durante la sfilata degli apostoli un gallo canta per tre volte. I giorni della settimana sono rappresentati dalle divinità: Apollo la domenica, Diana il lunedì, Marte il martedì, Mercurio il mercoledì, Giove il giovedì, Venere il venerdì e Saturno il sabato. L’anno è descritto da un calendario perpetuo a forma di anello con i mesi, i giorni e i rispettivi santi, le feste fisse e mobili.”

Nonostante in Occidente si registrassero progressi in questa direzione, fino all’inizio del xv secolo gli orologi meccanici rimasero rari; se ne avevano esempi solo tra le classi più abbienti oppure, come visto, nelle chiese di una certa importanza.

Tuttavia, parallelamente allo sviluppo delle tecniche metallurgiche, nel xv secolo fu ideato un nuovo meccanismo per l’immagazzinamento dell’energia: la molla. Ciò ebbe alcuni effetti: la miniaturizzazione degli orologi, l’aumento della loro domanda e la diffusione della professione dell’orologiaio. Costui, inoltre, non era più un fabbro “prestato” a un’altra produzione, come lo era stato nei secoli dal xii al xiv, ma un artigiano più simile a un orafo, per la precisione richiesta dalle lavorazioni, e per le leghe più nobili utilizzate.

Abbinata alla molla vi era un altro meccanismo: la conoide. Si tratta di una sorta di boccola scanalata, con un profilo che segue grossomodo l’andamento di un braccio iperbolico. Tale profilo è utile per avere un momento risultante pressoché costante pur a fronte della diminuzione della forza rilasciata dalla molla. Posto che questa diminuzione possa essere rappresentata linearmente, si cha che in ogni istante il prodotto tra forza e braccio (pari al momento) è quasi costante, e costante è il risultante movimento delle lancette dell’orologio.

07 – tempus fugit

Compiendo un salto di cinque secoli, si trova che nel xiv secolo gli orologi europei erano i più evoluti da un punto di vista tecnologico. Esploratori come Marco Polo invertirono il senso della diffusione, portando in Oriente le realizzazioni del Vecchio Continente.
Alla base dei sostanziali miglioramenti dei sistemi meccanici di misurazione del tempo si ebbero i meccanismi di scappamento, che permettono una regolazione del sistema.
La regolazione può essere definita come la modalità di condizionamento di una variabile di controllo in un sistema automatico. Nel caso degli orologi, il problema era di far rilasciare in modo non immediato, ma graduale nel tempo, l’energia contenuta in qualche sistema: anzitutto, dei pesi sospesi a corde arrotolate attorno a un asse orizzontale (è ovvio che se l’asse è libero di compiere delle rotazioni, i pesi fanno srotolare la corda che li regge, in modo quasi istantaneo), ma anche delle molle metalliche a spirale.
Il sistema dello scappamento a foliot, che risolse in modo più che soddisfacente il problema della regolazione, è costituito da una ruota dentata, con numero di denti dispari, che, messa in moto da un sistema di pesi, durante la sua rotazione batte alternativamente contro le due palette di un foliot (asta in equilibrio rotante, dotata di masse), che a loro volta imprimono una rotazione al medesimo asse al quale sono fissate. Questo movimento oscillante permette la regolazione del movimento dell’asse primario (quello al quale sono appesi i pesi). Il movimento alternato del congegno mira a far sì che l’energia potenziale iniziale, dovuta all’avviamento dell’orologio, trasformatasi poi in energia cinetica, sia dilazionata nel tempo.

Il sistema permette anche una taratura: i bracci del foliot hanno un profilo scanalato, sul quale è agevole collocare i pesi che fanno variare con la propria posizione il momento d’inerzia del sistema. Questa grandezza influisce sulla velocità di rotazione (più propriamente occorrerebbe parlare di velocità angolare, poiché l’asse del foliot ha un movimento alternato, e non compie rotazioni complete), per la costanza del momento angolare, essendo pari a zero quello risultante delle forze applicate, quali la forza di gravità e le reazioni vincolari. Il momento angolare è poi pari al prodotto del momento d’inerzia per la velocità angolare; così, quando si distanziano i pesi dall’asse, il momento d’inerzia dello scappamento a foliot aumenta mentre, affinché il momento angolare non vari, la velocità angolare diminuisce.

La realizzazione di simili congegni passa per un perfezionamento nella produzione dei manufatti metallici. Non è un caso se proprio in questo periodo (si parla del xv secolo) i miglioramenti in campo metallurgico, e in particolare nelle tecniche di fusione del bronzo, consentirono sia la possibilità di produrre orologi meccanici sufficientemente precisi, ma anche campane e cannoni (i primi orologi erano costituiti per lo più proprio in bronzo). Per questi due ultimi manufatti, se è vero che non era richiesta la precisione per un accoppiamento meccanico con altri manufatti, era di fondamentale importanza la precisione nella fusione, ossia l’ottenimento di una colata omogenea per caratteristiche fisico-chimiche. Ciò fu possibile con il raggiungimento di temperature elevate dei forni dovuto alla scoperta di combustibili (carbone fossile in luogo di quello di legna) con potere calorifico maggiore, ma anche con la possibilità di costruire dei camini di maggiore altezza. A loro volta, le alte temperature dei forni favorirono l’assenza di cricche nei pezzi prodotti per fusione.

07 – ora et labora

Sino quasi alla fine del Medioevo, gli strumenti storicamente utilizzati dall’uomo per la misurazione del tempo hanno principalmente basato il proprio funzionamento sul consumo (candele marcatempo, bastoncini combustibili) o sul flusso controllato (orologio ad acqua, clessidra a sabbia), provvedendo a un conteggio più che a una misura. La candela marcatempo poteva essere graduata, e così pure il bastoncino combustibile; lo scorrere della sabbia nella clessidra aveva carattere di ripetibilità, rendendo per l’appunto possibile il conteggio; in nessun caso, però, si aveva un’unità di misura univoca, un riferimento esterno (come una frazione del giorno), che rendesse possibile una quantificazione univoca (misura) del tempo trascorso. In qualche modo il meccanismo o l’oggetto conteneva al proprio interno la misura, che in questo modo non era operativamente trasferibile.
Il passaggio agli orologi meccanici segnò, in particolare con l’adozione dei sistemi di scappamento, il passaggio a un’unità campione che poteva essere replicata, così come era confrontabile l’andamento di diversi strumenti di misura. Parallelamente, ciò concise anche con il passaggio, parafrasando lo studio omonimo di Alexandre Koyré, “dal mondo del pressappoco all’universo della precisione”, ossia da una modalità pre-scientifica a una propriamente scientifica.
Non saranno tuttavia gli scienziati a servirsi per primi di questo passaggio: le prime comunità ad avvertire un certo bisogno di precisione saranno quelle degli ordini monastici. In un mondo agricolo nel quale i ritmi del lavoro e la scansione della giornata avvenivano grazie all’alternarsi del giorno e della notte, oltre che dall’avvicendarsi delle stagioni, i monaci abbisognavano di sapere l’ora per ottemperare correttamente alla propria regola (il sistema di norme dettato dal fondatore dell’ordine), che prevedeva in genere un momento di preghiera notturna, detto compìeta.
La scansione della cosiddetta “liturgia delle ore” è la seguente:
lodi all’alba;
prima alle 6;
terza alle 9;
sesta alle 12;
nona alle 15;
vespri al tramonto;
compìeta a una certa ora della notte.
Da questa rigorosa suddivisione, nella quale i soli vespri potevano essere celebrati sulla base di un riferimento naturale si può immaginare la necessità di precisione nella misurazione dell’ora.

Saranno poi gli astronomi a spingere per un ulteriore perfezionamento dei meccanismi, poiché la tabulazione delle posizioni degli astri aveva pieno senso se inserita in un riferimento cronologico coerente.

Sino all’epoca rinascimentale (basti pensare che fu ripreso nel Re militari di Roberto Valturio, nel 1472) l’orologio ad acqua di Vitruvio fu uno dei meccanismi di misurazione del tempo più precisi. Esso è costituito da un’asta dotata di un galleggiante in un serbatoio contenente acqua in continuo elevamento. All’estremità dell’asta è collegata una ruota dentata: quest’ultima viene messa in rotazione attraverso l’avanzamento verticale del profilo dentato di cui l’asta è dotata; la lancetta, accoppiata con la ruota, scandisce il tempo sul quadrante in funzione dell’innalzamento del livello dell’acqua.

Pur rigettando l’ipotesi ormai desueta di un Medioevo europeo come età dei secoli bui, almeno nell’alto Medioevo la diffusione delle macchine per la misurazione del tempo aveva come direzione principalmente quella che va da Est verso Ovest. Si trattava comunque di manufatti ancora imprecisi, realizzati soprattutto per un fine estetico. Un esempio rilevante ne è lo storico dono di Haroun al Rashid, nell’807 d.C. che omaggiò Carlo Magno con un orologio ad acqua, basato sul funzionamento coordinato di palline di bronzo che indicavano l’ora cadendo in un bacino di ottone, ad eccezione del mezzogiorno, quando dodici cavalieri escono da rispettive finestrelle, che poi si chiudono dietro di loro. Questo congegno non era affidabile ed era approssimativo. La sua ragion d’essere non era tanto tecnica, quanto scenica.
Non ci si discosta ancora molto dalla posizione dei Greci, che vedevano la tecnica come un sovvertimento dell’ordine naturale, e quindi, come tale, da aborrire. La tecnica, tutt’al più, poteva essere fonte di divertimento, come tale disgiunto da applicazioni reali.

06 – tutte le strade portano a Roma

Alla base delle strade romane erano fondazioni eseguite a mano, poi degli strati impermeabili che preservavano dall’acqua. A questi era sovrapposto un nucleus, un sostegno per il pavimento vero e proprio.
Nella costruzione di strade si usavano rulli in pietra descritti anche da Virgilio.
Gli ingegneri romani tentavano sempre di adoperare materiali locali, in modo da avere le cave in pietra in prossimità della strada da costruire.
L’uso della malta di calce (calce o pozzolana come legante, sabbia e acqua) fu importato dall’edilizia ellenica verso il 300 a.C. Con pietrisco, cocci di terracotta e mattoni frantumati preparavano un fondo che poteva penetrare tra gli interstizi delle pietre degli strati di fondazione per dare maggiore solidità. Si usava anche il fondo di ghiaia, con il risultato di una strada in calcestruzzo (composto di cemento come legante, un inerte come la ghiaia e acqua).

Il procedimento tecnico usato dai Romani per organizzare i terreni agricoli si chiama “centuriazione” ed è un metodo valido per un territorio pianeggiante e ricco di acqua come quello della valle Padana: boscaglie e paludi vengono eliminate per guadagnare fertili terreni agricoli, per assegnare ai cittadini delle colonie; l’area coltivabile viene non solo parcellata (suddivisa) ma anche attrezzata con strade, sentieri e una rete di canali, di scoli e di fossi.
La suddivisione del territorio e l’assegnazione delle terre ai coloni si realizzavano tracciando sul terreno un reticolo ortogonale di maglie quadrate (centurie) di circa settecento metri per lato, con una superficie di circa 50 ettari. Le linee divisorie formanti la centuria, prendono il nome di “cardini” e “decumani” (i primi nella direzione sud-nord e gli altri secondo quella est-ovest), più genericamente chiamati limites. Gli assi principali tracciati per primi dagli agrimensori si chiamano Decumano e Cardo Maximum. Lo strumento usato per questa operazione era la groma, sorta di squadra con piombi il cui uso prevedeva di traguardare attraverso i fili condotti dai piombi.
Terminata la suddivisione del suolo, agli incroci del limites erano posti dei cippi in pietra chiamati “termini” cioè pietre di confine sulle quali erano incise le coordinate della centuriazione. I confini erano considerati sacri e le pietre di confine onorate come divinità.
La forma dell’appezzamento era quadrata, ed era funzionale all’uso, da parte dei legionari in pace, dell’aratro semplice o a chiodo, il cui funzionamento è molto diverso da quello dell’aratro pesante, per il quale è sufficiente una sola passata. L’aratro a chiodo era trascinato una prima volta (vista la leggerezza dello strumento, l’operazione poteva essere compiuta senza l’ausilio di animali) con delle passate parallele a due dei lati. Era così tracciato un piccolo solco. Avveniva poi la seconda passata, le cui linee erano perpendicolari a quelle della prima, e consentivano l’innalzamento e il ribaltamento delle zolle di terra, risultanti in un’aratura di qualità sufficiente.

La noria era, insieme alla vite di Archimede, uno strumento utilizzato dai Romani per i lavori di drenaggio. Esse, insieme con sistemi di pompaggio in bronzo, sono state descritte già da Erone e Vitruvio, ed erano ancora in uso nel xix secolo. Tuttavia, il maggiore impegno nella tecnologia idrica (e i migliori risultati ottenuti) dei Romani si concentrò sui sistemi di mulini (come nel caso di quelli di Barbegal, presso Arles, in Francia).
La funzione dei mulini era di produrre macinato sia per esigenze locali, sia per il sostentamento della capitale: all’apogeo dell’Impero romano, infatti, ogni anno entrava in Roma almeno mezzo milione di tonnellate di frumento, per sfamare il milione di persone che nel i e ii secolo d.C. vi abitava.

Anche la tecnologia militare vide qualche realizzazione tecnica di rilievo: l’onagro e la cheiroballista (o chiroballista) potevano scagliare rispettivamente massi di qualche centinaio di chili a centinaia di metri di distanza e grandi frecce con notevole potenza.

Infine, fu messo a punto un sistema di comunicazione ottico che si rivelò di una certa utilità: un sistema di due gruppi di 5 aste con bandiera permetteva la trasmissione di alcune fondamentali comunicazioni. Collocato in punti strategici, il sistema permetteva una veloce comunicazione alle truppe.

06 – modelli di uomo e architettonici

Marco Vitruvio Pollione (Marcus Vitruvius Pollio), (75 a.C. circa – 25 a.C.) fu architetto, ingegnere e scrittore latino.
Già ufficiale sovrintendente alle macchine da guerra sotto Giulio Cesare ed architetto-ingegnere sotto Augusto, è l’unico scrittore latino di architettura di cui si possiedano le opere. Vera autorità nel campo, è spesso citato dagli autori successivi, come Frontino.
La sua opera fondamentale è il De architectura in 10 libri, dedicato ad Augusto e scritto tra il 27 e il 23 a.C. In quegli anni Augusto progettava un rinnovamento generale dell’edilizia pubblica. Il trattato, riscoperto in epoca rinascimentale (1414) da Poggio Bracciolini, è stato il fondamento dell’architettura occidentale fino alla fine del XIX secolo.
Il De architectura presenta la seguente scansione:
• Libro I: formazione dell’architetto e scelta del luogo
• Libro II: tecniche edificatorie, origine e sviluppo
• Libro III e IV: edifici sacri
• Libro V: edifici pubblici
• Libro VI e VII: edifici privati (luogo, tipologia, intonaci, pavimenti)
• Libro VIII: Idraulica
• Libro IX: orologi solari, digressione astronomica e astrologica
• Libro X: Meccanica (costruzione di gru, macchine idrauliche e belliche)

La scansione dà un’idea precisa della tecnologia romana.
Si tratta in realtà di un vero trattato di ingegneria, e sarà opera di riferimento per molti secoli.
Vitruvio ci informa di una pratica amministrativa elaborata da lui stesso, per la quale i privati dovevano pagare una tassa basata su un contratto tra lo Stato e l’utente, al fine di limitare gli allacciamenti abusivi e le concessioni individuali e gratuite. Jerôme Carcopino nella sua opera La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero dichiara che, nonostante le grosse canalizzazioni di piombo portassero l’acqua degli acquedotti nelle abitazioni private, solo i pianterreni delle insulæ dove abitavano i più facoltosi vi avevano accesso. Gli abitanti dei piani alti erano costretti a procurarsi l’acqua alla più vicina fontana e questo rendeva difficile la cura della pulizia. Giovenale nelle sue Satire cita spesso i portatori d’acqua (aquarii), necessari alla vita collettiva d’ogni stabile. In effetti nessuna costruzione ci ha ancora rivelato le colonne montanti che avrebbero permesso di portare l’acqua ai diversi piani.
Dal punto di vista architettonico, i Romani ebbero il merito di utilizzare due nuovi elementi costitutivi: l’arco e la volta. Grazie anche alla selezione dei materiali e alla qualità risultante, essi raggiunsero picchi di assoluta rilevanza, come nel caso del Pantheon. Costruito dall’imperatore Adriano nel II secolo d.C., rimase insuperato per oltre 1500 anni per le dimensioni della propria cupola, che raggiunge i 43 metri di diametro.
L’arco fu abbondantemente usato anche nella costruzione dei manufatti murari degli acquedotti, e la sua realizzazione prevedeva l’uso delle centine in legno, poiché durante le fasi della costruzione non autososteneva il proprio peso parziale.
La gerarchia organizzativa nell’ambito dei lavori pubblici era strettamente legata a quella religiosa: basti pensare a due figure fondamentali, come il rex auger e il pontifex maximus, che svolgevano funzioni sia religiose sia politiche. Ad esempio, il pontifex sovrintendeva alla costruzione delle maggiori opere civili (quali i ponti, appunto), ma si curava anche della divinazione ritenuta necessaria perché i migliori auspici vigessero al momento dell’inaugurazione dell’opera. Per la parola “pontefice” oggi rimane, come noto, solo il significato legato alla funzione religiosa e divinatoria.

06 – aqua

Se i Greci ebbero grande attenzione per le questioni teoriche, mancando completamente nella loro applicazione pratica, per motivi contingenti (l’abbondanza di manodopera servile) che si stratificarono in visioni sociali (la bassissima considerazione di coloro che si occupavano di arti pratiche, in favore di coloro che si dedicavano alla pura speculazione), vale il contrario per i Romani, che raggiunsero livelli non toccati in precedenza non solo nelle realizzazioni pratiche, ma anche nella gestione di queste, specie quando si trattava di reti infrastrutturali territoriali. Le formulazioni teoriche di epoca romana, poi, furono in realtà sistematizzazioni, sempre con un occhio di riguardo per la gestione sistematica della tecnologia.
I settori in cui maggiormente lasciarono traccia i Romani sono quelli intrinsecamente legati alla presenza di grandi città (di cui Roma è ovviamente l’esempio di gran lunga più significativo) e alla necessità di gestire centralmente un grande impero come quello romano, che alla propria massima espansione raggiunse dimensioni continentali.
Si parla così principalmente di gestione delle acque, di implementazione e gestione di un sistema viario, e di realizzazione e gestione di edifici, in molti casi di dimensioni notevoli.

Sesto Giulio Frontino nacque attorno al 30 d.C.; fu Governatore della Britannia (74-78) e curatore delle acque di Roma (97-104) si occupò anche di agrimensura (in un trattato andato perduto) e di tecnica militare e strategia (Strategmata in 4 libri).
Il suo trattato De acquae ductu urbis Romae è opera di fondamentale importanza per la comprensione del sistema tecnico romano, non solo di quello legato alla gestione delle acque.
Gli acquedotti romani funzionavano per gravità. A monte si aveva il manufatto di presa (incile); scendendo, il lungo canale in muratura (rivus) trasportava le acque anche a più di 100 km di distanza; le gallerie, i ponti-canale per attraversare le valli con muri e archi (substructiones, arcuaziones), se del caso le condotte in piombo saldato, sino alle vasche di carico alimentanti le reti idriche cittadine (castella aquae), erano i manufatti complementari. Esistevano anche le opere per il corretto funzionamento come le piscinae limariae (sedimentatori) e i fori di aerazione (lumina).
La trattazione di Frontino chiarisce che i Romani, sino al 312 a.C. non adottarono reti idriche. Le fonti erano ritenute sacre e apportatrici di salute ai corpi ammalati; le principali erano la fonte delle Camene, quella di Apollo e quella della ninfa Giuturna.
Il primo acquedotto fu quello dell’Aqua Appia (312); seguirono quelli dell’Aniene Vecchio (272), dell’Aqua Marcia (144), dell’Aqua Tepula (125), Iulia (33), Virgo (19), Alsietina (2 a.C.), Claudia (52 d.C.), Anio Novus.
La rete non interrata degli acquedotti romani si estendeva per 50 chilometri; essi fornivano a Roma 12.454 quinarie (circa 705.000 mc d’acqua nelle 24 ore).
Secondo i calcoli di Frontino, il 17% dell’acqua serviva a scopi “industriali”, il 39% ad usi privati e il rimanente 44% riforniva 19 caserme, 95 edifici pubblici, 39 terme e 591 fontane.
Tra le tre destinazioni delle risorse idriche era prioritaria quella per uso pubblico e in origine solo l’acqua in eccesso (aqua caduca) era destinata ai bagni pubblici, mediante una concessione che comportava il pagamento di un canone.
Quanto alle concessioni ai privati, dovettero essere all’inizio gratuite, date o in cambio di servizi resi allo stato o come beneficia principis.

05 – ηὕρηκα!

Archimede (Siracusa 287-212 a.C.) matematico, astronomo e fisico greco, è passato alla storia come inventore di ordigni bellici e invenzioni meccaniche, tra cui:
– la manus ferrea, artiglio meccanico in grado di agganciare e ribaltare le imbarcazioni nemiche durante le battaglie navali ( storicamente impiegato nella seconda guerra punica);
– gli specchi ustori, specchi metallici concavi in grado di concentrare un fascio di luce in un punto, il calore concentrato era tale da causare incendi;
– la leva, macchina semplice per la trasformazione del movimento formata da un braccio ed un fulcro attorno al quale è libero di ruotare; di Archimede si ricorda in modo leggendario la frase “Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo” e, principalmente, poiché fu il primo ad esplicarne il funzionamento in termini matematici: “Le grandezze commensurabili sono in equilibrio se sospese a distanze inversamente proporzionali ai pesi.” (da Sull’equilibrio dei piani, libro i, proposizione 6);
– l’odometro, strumento per la misurazione di distanze lineare terrestri e marittime; il principio del suo funzionamento è il conteggio dei giri compiuti da una ruota che fa presa sulla strada o sulla superficie dell’acqua; la ruota della quale si desidera sapere il numero di giri compiuti è collegata, a mezzo di altre ruote dentate, a un sistema di riporti meccanici, utile per il computo di numeri alti;
– la vite omonima (o coclea), strumento per il sollevamento di liquidi o polveri, costituito da un tubo contenente una spirale la cui rotazione comporta l’innalzamento del contenuto nell’ansa formata dal profilo della vite medesima.

Erone (Alessandria, i secolo d.C.) matematico e inventore greco è ricordato tra l’altro per:
– l’eolipila, vera e propria macchina a vapore, costituita inferiormente da una caldaia in cui veniva portata ad ebollizione l’acqua che, divenuta vapore, passava attraverso due bracci ad uno “sfiatatoio” superiore sferico; questo, in virtù della pressione esercitata dal vapore in uscita, iniziava a girare trasformando l’energia termica in cinetica;
– un orologio ad acqua di celebrata precisione;
– la macchina omonima (“macchina di Erone”), dispositivo automatico per l’apertura di porte; ricade nel novero dei meccanismi ideati per un uso del lavoro meccanico non a fini produttivi, ma semplicemente per un effetto scenico;
– una versione migliorata dell’odometro.

Il ritrovamento tecnologico più significativo in età greca è tuttavia la macchina di Anticitera. Essa costituisce il primo calcolatore meccanico, risale al i secolo a.C. Fu rinvenuto in un relitto marino nei pressi dell’isola greca di Anticitera (da cui prende nome).
Si tratta di un planetario in grado di rappresentare il movimento degli astri, precisamente del sole, della luna (con le fasi lunari) e dei cinque pianeti allora conosciuti; inoltre era in grado di tracciare riferimenti temporali, una sorta di calendario. Il meccanismo è composto da ingranaggi di vario tipo, messi in relazione da proporzioni matematiche; offre inoltre la prima testimonianza dell’uso di differenziali, cioè organi di trasmissione meccanica che, dati due moti, permettono di sommarli o sottrarli. L’autore di tale invenzione non è definibile con certezza.

05 – parallelismi e convergenze

La geometria euclidea fu l’unica operativamente accettata per secoli e secoli, sebbene Euclide stesso e addirittura, prima di lui, Aristotele, avevano intuito alcune possibilità alternative. Che il quinto postulato “stonasse” con gli altri fu subito apparente, pur tuttavia nei secoli furono moltissimi i tentativi di sua dimostrazione. Prima in maniera diretta, e poi per assurdo.
Particolarmente celebre è la dimostrazione per assurdo di Giovanni Girolamo Saccheri, che, certo del proprio risultato, nel 1733 fece intitolare la propria opera Euclides ab omni naevo vindicatus (letteralmente “Euclide vendicato da ogni macchia”). In seguito sarà dimostrato che la dimostrazione di Saccheri era fallace, ma ebbe il merito di spianare la strada all’avvento delle geometrie non euclidee.
Nel corso del xix secolo, infatti, si resero disponibili (e utili) punti di vista alternativi, che non davano più per scontata la validità del postulato cosiddetto delle rette parallele. In maniera indipendente, il matematico russo Nikolai Lobacevskij (1892-1956) e il militare ungherese János Bolyai (1802-1860) concepirono una geometria nella quale per un punto esterno a una retta poteva passare più di una parallela. Si tratta della cosiddetta geometria iperbolica, nella quale il sistema di riferimento non è più un piano, ma un solido, quale ad esempio la pseudosfera di Beltrami, dal nome del matematico italiano Eugenio Beltrami (1836-1900) che la concepì nel 1867. Nella geometria parabolica sono possibili delle forme triangolari la cui somma degli angoli interni è minore dell’angolo piatto.
Alternativamente, il matematico tedesco Bernhard Riemann (1826-1866) ideò una geometria, detta poi ellittica, nella quale il sistema di riferimento è sferico. In questa geometria, una geodetica (ossia una retta massima, ossia una retta che è traccia sulla superficie sferica di un piano passante per il centro della sfera medesima) non ha parallele, poiché se consideriamo ad esempio una geodetica analoga ad un meridiano del globo terrestre, questa incontrerà tutte le altre geodetiche in almeno due punti, compresi gli altri meridiani (tutti i meridiani si incontrano ai poli).

Le geometrie non euclidee furono essenziali nelle formalizzazioni delle teorie fisiche di inizio del xx secolo, ivi compresa la teoria della relatività generale, poiché sono utili nella rappresentazione di uno spazio non più cartesiano (o euclideo, per l’appunto), nel quale si hanno curvature dovute alla inapplicabilità delle trasformate galileiane di spazio (e tempo). La situazione descritta da Einstein per mezzo della geometria ellittica era quella della curvatura del quadrivettore spazio-temporale in presenza di un grande campo gravitazionale, che provoca la flessione degli stessi raggi di luce.
Nella sua teoria, Einstein preferì adottare una geometria non euclidea, sicuramente più complicata, ottenendo però come risultato una formulazione più semplice; alternativamente, avrebbe potuto usare la “vecchia” geometria euclidea, formulando leggi fisiche più complicate.